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Miti e Leggende
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14 Anni 11 Mesi fa #4090
da LaDea
Risposta da LaDea al topic Re:Miti e Leggende
Il segreto di Pandora
Tutto nacque come castigo divino. Zeus era adirato: con Prometeo, che gli aveva sottratto il fuoco, e con la razza umana, perché in un modo o nell'altro qualche colpa l'aveva sempre. Punì Prometeo inchiodandolo ad una rupe, mentre all'umanità donò la donna.
Ordinò ad Efesto di modellare un'immagine umana servendosi di acqua e argilla. Ordinò poi a tutti gli dei di coprire di doni questa nuova figura: Athena le donò candide vesti, sapienza e abilità nei lavori domestici; Afrodite le donò la civetteria; le Ore resero splendidi i suoi capelli; Ermes pose la malizia nel suo cuore e sulle sue labbra. E fu la prima donna, che per i tanti doni ricevuti si chiamò Pandora.
Una volta creata, Zeus fece alla donna il dono più grande di tutti: un vaso. Non era un vaso grande, ma splendidamente istoriato: ed era chiuso. Nel porgerlo a Pandora, Zeus le disse che quel vaso non avrebbe mai dovuto essere aperto, per nessun motivo. Fatto questo, diede in sposa Pandora ad Epimeteo, fratello di Prometeo, che accettò il dono.
Non passò molto tempo, che la trappola di Zeus scattò. Pandora era dilaniata dalla curiosità e volendo sapere cosa contenesse il vaso, disubbidì all'ordine e lo aprì. Subito tutti i castighi di Zeus all'umanità uscirono dal vaso: la Morte, la Malattia, il Dolore. Pandora si affrettò a chiudere il vaso, ma era troppo tardi. Al suo interno era rimasta solo una piccola falena, Elpis, il castigo più sottile e insidioso fra quelli ideati da Zeus: l'Aspettativa. Lei la guardò, con le lacrime agli occhi: sarebbe stata punita per la sua avventatezza. Fissò l'Aspettativa, la afferrò tra l'indice e il pollice e le strappò le ali. Poi si ravvivò i capelli, si rassettò la veste e iniziò a spargere in giro la voce di aver donato al mondo la Speranza".
La mia piccola Regina Bianca mi ha fatto un dono.
Ha impugnato un paio di forbici ed ha accorciato il lacciuolo di un suo pendaglio: ha poi annodato quel laccio tagliato al mio polso. Ad un'estremità, una goccia d'argento reca la scritta: PANDORA.
"Ti porterà fortuna" mi ha detto.
"Contro le aspettative" ho pensato.
Mailand mi attende severa.
Tutto nacque come castigo divino. Zeus era adirato: con Prometeo, che gli aveva sottratto il fuoco, e con la razza umana, perché in un modo o nell'altro qualche colpa l'aveva sempre. Punì Prometeo inchiodandolo ad una rupe, mentre all'umanità donò la donna.
Ordinò ad Efesto di modellare un'immagine umana servendosi di acqua e argilla. Ordinò poi a tutti gli dei di coprire di doni questa nuova figura: Athena le donò candide vesti, sapienza e abilità nei lavori domestici; Afrodite le donò la civetteria; le Ore resero splendidi i suoi capelli; Ermes pose la malizia nel suo cuore e sulle sue labbra. E fu la prima donna, che per i tanti doni ricevuti si chiamò Pandora.
Una volta creata, Zeus fece alla donna il dono più grande di tutti: un vaso. Non era un vaso grande, ma splendidamente istoriato: ed era chiuso. Nel porgerlo a Pandora, Zeus le disse che quel vaso non avrebbe mai dovuto essere aperto, per nessun motivo. Fatto questo, diede in sposa Pandora ad Epimeteo, fratello di Prometeo, che accettò il dono.
Non passò molto tempo, che la trappola di Zeus scattò. Pandora era dilaniata dalla curiosità e volendo sapere cosa contenesse il vaso, disubbidì all'ordine e lo aprì. Subito tutti i castighi di Zeus all'umanità uscirono dal vaso: la Morte, la Malattia, il Dolore. Pandora si affrettò a chiudere il vaso, ma era troppo tardi. Al suo interno era rimasta solo una piccola falena, Elpis, il castigo più sottile e insidioso fra quelli ideati da Zeus: l'Aspettativa. Lei la guardò, con le lacrime agli occhi: sarebbe stata punita per la sua avventatezza. Fissò l'Aspettativa, la afferrò tra l'indice e il pollice e le strappò le ali. Poi si ravvivò i capelli, si rassettò la veste e iniziò a spargere in giro la voce di aver donato al mondo la Speranza".
La mia piccola Regina Bianca mi ha fatto un dono.
Ha impugnato un paio di forbici ed ha accorciato il lacciuolo di un suo pendaglio: ha poi annodato quel laccio tagliato al mio polso. Ad un'estremità, una goccia d'argento reca la scritta: PANDORA.
"Ti porterà fortuna" mi ha detto.
"Contro le aspettative" ho pensato.
Mailand mi attende severa.
- lagunablu69
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14 Anni 11 Mesi fa #4093
da lagunablu69
Risposta da lagunablu69 al topic Re:Miti e Leggende
il Caos - Kronos
In principio era il Verbo, dice la religione cristiana. Per la mitologia greca, invece, in principio era il Caos, una massa informe di tutti gli elementi della natura, aria, terra, roccia, fuoco, vapore. Da questo ammasso, appunto “caotico”, emersero due entità di straordinaria potenza ed energia: Gea, la terra, ricca di fecondità, ed Eros, l’amore inseminatore di vita. E dall’unione di questi due portentosi princìpi vitali, il Caos (vale a dire la confusione) si trasformò in armonia.
Gea dette vita a nuovi elementi, come l’Etere luminoso, la Notte, Urano che è il firmamento, Oceano, i Monti, i Ciclopi dispensatori di lampi e tuoni, i mostruosi Giganti divinità delle tenebre, i feroci Titani.
Il più giovane di questi era Kronos , il Tempo (per i Latini, Saturno), che spodestò dal regno dell’universo il padre Urano e ne prese lo scettro. Dalla sua unione con Rea, la latina Cibele, nacquero poi le divinità maggiori dell’Olimpo da noi più conosciute, fra cui Giove e Giunone.
Ma anche Kronos non ebbe sorte migliore del proprio detronizzato padre: temendo che i figli da lui generati potessero tramare contro di lui, cominciò a divorarli per eliminarne il pericolo.
Da questa fine fu salvato Giove, trafugato e nascosto dalla madre Rea sul monte Ida, da dove, a solo un anno di vita, ma già dio potente e… adulto, partì a sua volta per l’ultima e definitiva vendetta: cacciò Kronos dal regno del mondo e prese il governo dell’universo e degli uomini.
Una curiosità. Cacciato dall’Olimpo, Saturno (Kronos) si rifugiò in Italia e precisamente si nascose nel Lazio (Latium), il cui nome deriva dal verbo latino latère, nascondersi: sarà per questo che in Italia abbondano... i latitanti?
In principio era il Verbo, dice la religione cristiana. Per la mitologia greca, invece, in principio era il Caos, una massa informe di tutti gli elementi della natura, aria, terra, roccia, fuoco, vapore. Da questo ammasso, appunto “caotico”, emersero due entità di straordinaria potenza ed energia: Gea, la terra, ricca di fecondità, ed Eros, l’amore inseminatore di vita. E dall’unione di questi due portentosi princìpi vitali, il Caos (vale a dire la confusione) si trasformò in armonia.
Gea dette vita a nuovi elementi, come l’Etere luminoso, la Notte, Urano che è il firmamento, Oceano, i Monti, i Ciclopi dispensatori di lampi e tuoni, i mostruosi Giganti divinità delle tenebre, i feroci Titani.
Il più giovane di questi era Kronos , il Tempo (per i Latini, Saturno), che spodestò dal regno dell’universo il padre Urano e ne prese lo scettro. Dalla sua unione con Rea, la latina Cibele, nacquero poi le divinità maggiori dell’Olimpo da noi più conosciute, fra cui Giove e Giunone.
Ma anche Kronos non ebbe sorte migliore del proprio detronizzato padre: temendo che i figli da lui generati potessero tramare contro di lui, cominciò a divorarli per eliminarne il pericolo.
Da questa fine fu salvato Giove, trafugato e nascosto dalla madre Rea sul monte Ida, da dove, a solo un anno di vita, ma già dio potente e… adulto, partì a sua volta per l’ultima e definitiva vendetta: cacciò Kronos dal regno del mondo e prese il governo dell’universo e degli uomini.
Una curiosità. Cacciato dall’Olimpo, Saturno (Kronos) si rifugiò in Italia e precisamente si nascose nel Lazio (Latium), il cui nome deriva dal verbo latino latère, nascondersi: sarà per questo che in Italia abbondano... i latitanti?
- lagunablu69
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14 Anni 11 Mesi fa #4094
da lagunablu69
Risposta da lagunablu69 al topic Re:Miti e Leggende
GIOVE.
Giove.
Giove. E' lo Zeus dei Greci, il sommo fra gli dei che, a detta di Omero, faceva tremare l'Olimpo. Sua madre Rèa lo sottrasse alla bestiale avidità del padre Crono (Saturno), che Giove poi detronizzò divenendo a sua volta signore del Cielo e della Terra. Era rappresentato con aspetto maestoso, il torso nudo e le spalle possenti, il fulmine impugnato con la destra, lo scettro e una statuetta della vittoria nella sinistra. Ai suoi piedi posava un'aquila, nell'atto di fissare i grandi occhi del sommo dio. Nella tradizione religiosa latina fu chiamato Ottimo Massimo Capitolino, dal tempio che gli era dedicato, insieme a Giunone e Minerva, in Campidoglio.
Giunone. Era sorella e moglie di Giove, una delle maggiori divinità dell'Olimpo, considerata come la dea che presiedeva alla fedeltà coniugale, forse in antitesi alle infedeltà del divino marito, protettrice dei matrimoni e dei parti: il suo epiteto più comune di Giunone Lucina era invocato dalle partorienti perché proteggesse i bambini quando venivano, appunto, alla luce. A Roma fu venerata anche con il nome di Giunone Prònuba, cioè di quella che conduceva la sposa alla casa del marito, e come Giunone Regina, protettrice dello Stato romano. Da lei prese il nome il mese di Giugno.
Minerva, figlia di Giove, balzata in armi fuori dalla dolorante testa di lui. Alla nascita, armata di tutto punto, con elmo, asta e scudo, si presentò già adulta al padre, pronta a mostrargli come fosse disposta ad aiutarlo, sia con le armi, sia con la saggezza che le era propria. Pur col suo armamentario guerriero, era soprattutto la dea della sapienza, della vita tranquilla e operosa, la protettrice dell'intelligenza e di tutte le arti. Quando Giunone vide che Giove aveva avuto questa figlia senza la propria partecipazione, si vendicò facendosi "ingravidare" da un fiore: e nacque Marte, il vero dio della Guerra, quasi un contraltare a questa dea in divisa ma pacifica, che aveva donato agli uomini l'ulivo, simbolo sommo della pace.
Figlia di Giove, la Venere dei Romani è l'Afrodite dei Greci, dea della bellezza e dell'amore sensuale. Era rappresentata con il voluttuoso corpo cinto di rose e di mirto, velata nella sua femminilità da una misteriosa cintura (il cinto di Venere). Fu una delle contendenti nella disputa sorta fra dèe per l'attribuzione del titolo di "più bella", e che ella vinse grazie al famoso Giudizio di Paride.
Fu amata dal principe troiano Anchise, da cui ebbe Enea, dovette poi
sposare lo zoppo Vulcano, e lo cornificò abbondantemente con Marte, con Bacco e col bellissimo Adone. Suoi figli furono Cupìdo (Amore) e l'ingannevole Priapo
Giove.
Giove. E' lo Zeus dei Greci, il sommo fra gli dei che, a detta di Omero, faceva tremare l'Olimpo. Sua madre Rèa lo sottrasse alla bestiale avidità del padre Crono (Saturno), che Giove poi detronizzò divenendo a sua volta signore del Cielo e della Terra. Era rappresentato con aspetto maestoso, il torso nudo e le spalle possenti, il fulmine impugnato con la destra, lo scettro e una statuetta della vittoria nella sinistra. Ai suoi piedi posava un'aquila, nell'atto di fissare i grandi occhi del sommo dio. Nella tradizione religiosa latina fu chiamato Ottimo Massimo Capitolino, dal tempio che gli era dedicato, insieme a Giunone e Minerva, in Campidoglio.
Giunone. Era sorella e moglie di Giove, una delle maggiori divinità dell'Olimpo, considerata come la dea che presiedeva alla fedeltà coniugale, forse in antitesi alle infedeltà del divino marito, protettrice dei matrimoni e dei parti: il suo epiteto più comune di Giunone Lucina era invocato dalle partorienti perché proteggesse i bambini quando venivano, appunto, alla luce. A Roma fu venerata anche con il nome di Giunone Prònuba, cioè di quella che conduceva la sposa alla casa del marito, e come Giunone Regina, protettrice dello Stato romano. Da lei prese il nome il mese di Giugno.
Minerva, figlia di Giove, balzata in armi fuori dalla dolorante testa di lui. Alla nascita, armata di tutto punto, con elmo, asta e scudo, si presentò già adulta al padre, pronta a mostrargli come fosse disposta ad aiutarlo, sia con le armi, sia con la saggezza che le era propria. Pur col suo armamentario guerriero, era soprattutto la dea della sapienza, della vita tranquilla e operosa, la protettrice dell'intelligenza e di tutte le arti. Quando Giunone vide che Giove aveva avuto questa figlia senza la propria partecipazione, si vendicò facendosi "ingravidare" da un fiore: e nacque Marte, il vero dio della Guerra, quasi un contraltare a questa dea in divisa ma pacifica, che aveva donato agli uomini l'ulivo, simbolo sommo della pace.
Figlia di Giove, la Venere dei Romani è l'Afrodite dei Greci, dea della bellezza e dell'amore sensuale. Era rappresentata con il voluttuoso corpo cinto di rose e di mirto, velata nella sua femminilità da una misteriosa cintura (il cinto di Venere). Fu una delle contendenti nella disputa sorta fra dèe per l'attribuzione del titolo di "più bella", e che ella vinse grazie al famoso Giudizio di Paride.
Fu amata dal principe troiano Anchise, da cui ebbe Enea, dovette poi
sposare lo zoppo Vulcano, e lo cornificò abbondantemente con Marte, con Bacco e col bellissimo Adone. Suoi figli furono Cupìdo (Amore) e l'ingannevole Priapo
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- Consuelo
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14 Anni 11 Mesi fa #4098
da Consuelo
Risposta da Consuelo al topic Re:Miti e Leggende
Aracne
Bella, fiera, saggia, La Dea Minerva amava i tumulti delle battaglie, dove i volti degli eroi sembravano trasfigurati da una luce gloriosa.
Ma Minerva, era donna e amava anche e, non meno, le tranquille gioie della pace. Le sue instancabili dita sapevano tessere meravigliosamente bene e sapevano creare ricami preziosi arazzi di mirabile fattura. Nessuna dea, nessuna Ninfa, nessun mortale potevano starle a paragone e, le donne di Grecia si vantavano di essere abili a ricamare perfettamente, perché lo avevano appreso dall'arte incomparabile della dea guerriera.
Ma nella Lidia abitava una fanciulla orgogliosa, Aracne, la quale non voleva saperne di dovere la propria bravura agli insegnamenti divini. Tesseva, cuciva, e ricamava così bene che, per ammirare le sue tele smaglianti,le Ninfe scendevano dai verdeggianti recessi dei boschi e, curvandosi stupite sul telaio di Aracne, le chiedevano: "Ti ha insegnato la saggia Minerva a tessere così, o Aracne dalle dita divine?" "Nessuno mi ha insegnato." rispondeva la fanciulla. "Io ricamo col mio cuore e con l'abile pazienza delle mie dita". Minerva seppe dalle Ninfe pettegole la risposta orgogliosa della fanciulla di Lidia e scese sulla terra sotto forma di una vecchia rugosa."Toc toc!..." fece la Dea picchiando alla porta della fanciulla. "Hai un tozzo di pane per questa vecchina stanca?" "entra pure nonnina" rispose Aracne, che stava come al solito tessendo al telaio. "Che tele meravigliose!" esclamò la vecchietta accostandosi. "E che merletti fini e leggeri!" Solo la guerriera figlia di Giove,la saggia Minerva, potrebbe farne di così belli". "Vorrei che venisse qui a misurarsi con me! Credo che la vincerei la dea che si crede invincibile!". disse Aracne. "Tu credi? Ascolta la saggezza dei miei capelli bianchi, Aracne; non essere così orgogliosa e non sfidare gli dei, potresti pentirtene!" "E perché? Né dea né donna può superare la mia abilità sul telaio! Perché pentirmene?" ribatté sicura la fanciulla, accarezzando le sete smaglianti che le servivano a ricamare.
"E allora accetto la sfida!" gridò indispettita la dea. E nello stesso attimo le sue rughe cave scomparvero, i capelli bianchi si accesero di bagliori dorati, la schiena curva si raddrizzò. Dinanzi agli occhi stupiti di Aracne, il corpo della dea si erse, splendido di bellezza, e un lampo di minaccia folgorò la tessitrice tremante."Siediti, cominciamo la gara!" impose la dea. E le due fanciulle ciascuna dinanzi ad un telaio si misero al lavoro. Per giorni e notti silenziose, instancabili, rimasero chine sugli arazzi da ricamare. Aracne, istoriò gli episodi più belli della vita dei Numi e Minerva la magnificenza dell'Olimpo. Alla fine i due lavori avevano raggiunto una tale bellezza da sembrare viventi scene da sogno; sugli sfondi vellutati delle sete le figure e gli alberi e i fiori balzavano stupendamente in rilievo e nessuno avrebbe potuto dire se la palma spettasse alla dea o alla fanciulla di Lidia. Ciascuna tela aveva una propria magnificenza.
Minerva, irritata, strappò in cento pezzi il lungo lavoro di Aracne, gridando: "Orgogliosa donna, tu devi morire, poiché hai sfidato oltraggiosamente una dea!". Ma poi, impietosita dalle lacrime della fanciulla, che, dopo aver visto il suo paziente ricamo di tante notti finire in brandelli, attendeva terrorizzata la morte aggiunse:"Invece di darti la morte, voglio essere generosa con te, tu vivrai, ma la tua vita sarà eternamente appesa ad un filo!"La toccò sulle spalle con la lancia dorata e la tessitrice si fece piccola piccola, il corpo le si aggrinzì, il capo divenne un peloso batuffolino nero, le gambe snelle si trasformarono in tante zampette sottili.La fanciulla era diventata un grosso ragno nero! E da quel giorno, eternamente, tessé le sue tele sottili negli angoli tranquilli, le tese tra i rami e i cespugli, ove l'ombra cupa dei boschi le circondava di umidi vapori, le tese ove il Sole, sfolgorando lieto sul mondo, le faceva scintillare di riflessi cangianti.
Bella, fiera, saggia, La Dea Minerva amava i tumulti delle battaglie, dove i volti degli eroi sembravano trasfigurati da una luce gloriosa.
Ma Minerva, era donna e amava anche e, non meno, le tranquille gioie della pace. Le sue instancabili dita sapevano tessere meravigliosamente bene e sapevano creare ricami preziosi arazzi di mirabile fattura. Nessuna dea, nessuna Ninfa, nessun mortale potevano starle a paragone e, le donne di Grecia si vantavano di essere abili a ricamare perfettamente, perché lo avevano appreso dall'arte incomparabile della dea guerriera.
Ma nella Lidia abitava una fanciulla orgogliosa, Aracne, la quale non voleva saperne di dovere la propria bravura agli insegnamenti divini. Tesseva, cuciva, e ricamava così bene che, per ammirare le sue tele smaglianti,le Ninfe scendevano dai verdeggianti recessi dei boschi e, curvandosi stupite sul telaio di Aracne, le chiedevano: "Ti ha insegnato la saggia Minerva a tessere così, o Aracne dalle dita divine?" "Nessuno mi ha insegnato." rispondeva la fanciulla. "Io ricamo col mio cuore e con l'abile pazienza delle mie dita". Minerva seppe dalle Ninfe pettegole la risposta orgogliosa della fanciulla di Lidia e scese sulla terra sotto forma di una vecchia rugosa."Toc toc!..." fece la Dea picchiando alla porta della fanciulla. "Hai un tozzo di pane per questa vecchina stanca?" "entra pure nonnina" rispose Aracne, che stava come al solito tessendo al telaio. "Che tele meravigliose!" esclamò la vecchietta accostandosi. "E che merletti fini e leggeri!" Solo la guerriera figlia di Giove,la saggia Minerva, potrebbe farne di così belli". "Vorrei che venisse qui a misurarsi con me! Credo che la vincerei la dea che si crede invincibile!". disse Aracne. "Tu credi? Ascolta la saggezza dei miei capelli bianchi, Aracne; non essere così orgogliosa e non sfidare gli dei, potresti pentirtene!" "E perché? Né dea né donna può superare la mia abilità sul telaio! Perché pentirmene?" ribatté sicura la fanciulla, accarezzando le sete smaglianti che le servivano a ricamare.
"E allora accetto la sfida!" gridò indispettita la dea. E nello stesso attimo le sue rughe cave scomparvero, i capelli bianchi si accesero di bagliori dorati, la schiena curva si raddrizzò. Dinanzi agli occhi stupiti di Aracne, il corpo della dea si erse, splendido di bellezza, e un lampo di minaccia folgorò la tessitrice tremante."Siediti, cominciamo la gara!" impose la dea. E le due fanciulle ciascuna dinanzi ad un telaio si misero al lavoro. Per giorni e notti silenziose, instancabili, rimasero chine sugli arazzi da ricamare. Aracne, istoriò gli episodi più belli della vita dei Numi e Minerva la magnificenza dell'Olimpo. Alla fine i due lavori avevano raggiunto una tale bellezza da sembrare viventi scene da sogno; sugli sfondi vellutati delle sete le figure e gli alberi e i fiori balzavano stupendamente in rilievo e nessuno avrebbe potuto dire se la palma spettasse alla dea o alla fanciulla di Lidia. Ciascuna tela aveva una propria magnificenza.
Minerva, irritata, strappò in cento pezzi il lungo lavoro di Aracne, gridando: "Orgogliosa donna, tu devi morire, poiché hai sfidato oltraggiosamente una dea!". Ma poi, impietosita dalle lacrime della fanciulla, che, dopo aver visto il suo paziente ricamo di tante notti finire in brandelli, attendeva terrorizzata la morte aggiunse:"Invece di darti la morte, voglio essere generosa con te, tu vivrai, ma la tua vita sarà eternamente appesa ad un filo!"La toccò sulle spalle con la lancia dorata e la tessitrice si fece piccola piccola, il corpo le si aggrinzì, il capo divenne un peloso batuffolino nero, le gambe snelle si trasformarono in tante zampette sottili.La fanciulla era diventata un grosso ragno nero! E da quel giorno, eternamente, tessé le sue tele sottili negli angoli tranquilli, le tese tra i rami e i cespugli, ove l'ombra cupa dei boschi le circondava di umidi vapori, le tese ove il Sole, sfolgorando lieto sul mondo, le faceva scintillare di riflessi cangianti.
- lagunablu69
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14 Anni 11 Mesi fa - 14 Anni 11 Mesi fa #4107
da lagunablu69
Risposta da lagunablu69 al topic Re:Miti e Leggende
G i u n o n e (Era)
Era una potenza, l’unica dea capace di tener testa all’onnipotente marito-sovrano. Per proporle di diventare sua moglie e regina dell’universo, quel bricconcello di Giove si presentò alla giovane dea sotto forma di volatile, un piccolo cuculo che le si posò tremante sulla spalla per trasformarsi poi in uno splendido dio, il principe azzurro delle favole moderne.
Il loro fu veramente un matrimonio d’amore, anche se contrastato in seguito da infedeltà, gelosie, ripicche: tutte caratteristiche della natura umana nelle quali gli antichi vedevano gli eterni sconvolgimenti di cielo e terra.
Al contrario del marito (specializzato in camuffamenti vari, sotto forma di cigno, torello, pioggia d’oro), Giunone è il simbolo della fedeltà coniugale e il modello di moglie: greci e latini ponevano sotto la sua protezione matrimoni e nascite.
Poiché separazioni e divorzi non li abbiamo inventati noi moderni, anche l’augusta coppia non ne fu indenne: stanca delle continue performances erotico-sentimentali del marito, l’infuriata Giunone si risolse a una separazione, sia pure non consensuale, e abbandonò il… tetto (anzi l’Olimpo) coniugale. E siccome noi moderni non abbiamo inventato neanche il “tarallucci e vino” *, il tutto finì in una riappacificazione, grazie a uno scaltro stratagemma di Giove, che, come tutti i mariti infedeli, ricorrono a tutti i mezzi per riportare a casa la moglie brontolona ma insostituibile (e intendiamoci: vale anche per… le mogli infedeli).
Nemmeno la politica (degli umani) fu estranea alle continue baruffe degli olimpici consorti. Giunone parteggiava per i Greci e ce l’aveva a morte con i Troiani, perché un loro principe, Paride, aveva offerto il “pomo della discordia” a Venere e non a lei, designando la dea dell’Amore come la più bella (l’altra contendente era Minerva).
Giove, invece, parteggiava per i Troiani, e potete immaginare le discussioni di carattere… politico che avvenivano fra i due. Niente di nuovo sotto il sole: anche loro non erano super partes.
Era una potenza, l’unica dea capace di tener testa all’onnipotente marito-sovrano. Per proporle di diventare sua moglie e regina dell’universo, quel bricconcello di Giove si presentò alla giovane dea sotto forma di volatile, un piccolo cuculo che le si posò tremante sulla spalla per trasformarsi poi in uno splendido dio, il principe azzurro delle favole moderne.
Il loro fu veramente un matrimonio d’amore, anche se contrastato in seguito da infedeltà, gelosie, ripicche: tutte caratteristiche della natura umana nelle quali gli antichi vedevano gli eterni sconvolgimenti di cielo e terra.
Al contrario del marito (specializzato in camuffamenti vari, sotto forma di cigno, torello, pioggia d’oro), Giunone è il simbolo della fedeltà coniugale e il modello di moglie: greci e latini ponevano sotto la sua protezione matrimoni e nascite.
Poiché separazioni e divorzi non li abbiamo inventati noi moderni, anche l’augusta coppia non ne fu indenne: stanca delle continue performances erotico-sentimentali del marito, l’infuriata Giunone si risolse a una separazione, sia pure non consensuale, e abbandonò il… tetto (anzi l’Olimpo) coniugale. E siccome noi moderni non abbiamo inventato neanche il “tarallucci e vino” *, il tutto finì in una riappacificazione, grazie a uno scaltro stratagemma di Giove, che, come tutti i mariti infedeli, ricorrono a tutti i mezzi per riportare a casa la moglie brontolona ma insostituibile (e intendiamoci: vale anche per… le mogli infedeli).
Nemmeno la politica (degli umani) fu estranea alle continue baruffe degli olimpici consorti. Giunone parteggiava per i Greci e ce l’aveva a morte con i Troiani, perché un loro principe, Paride, aveva offerto il “pomo della discordia” a Venere e non a lei, designando la dea dell’Amore come la più bella (l’altra contendente era Minerva).
Giove, invece, parteggiava per i Troiani, e potete immaginare le discussioni di carattere… politico che avvenivano fra i due. Niente di nuovo sotto il sole: anche loro non erano super partes.
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Ultima Modifica 14 Anni 11 Mesi fa da lagunablu69.
- Consuelo
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da Consuelo
Risposta da Consuelo al topic Re:Miti e Leggende
Il mostro dai 100 occhi
Viveva una volta, sempre nei favolosi tempi mitologici, una principessa di nome Io. La fama della sua avvenenza era così grande e incontrastata, che, si diceva, neppure le Dee dell'Olimpo potevano essere così belle.
Giunone, la sovrana dalla bianche braccia e dalla superba bellezza, fu irritata da questo e, per eliminare quella rivale troppo splendente, la trasformò in una bianca giovenca. La relegò in una solitaria prateria e, perché non fuggisse, le mise accanto come guardiano il mostruoso Argo, il quale aveva nientedimeno che cento occhi. Al sorgere del sole, Argo si destava e ne apriva metà, mentre apriva l'altra metà al calar delle tenebre; così non c'era mai pericolo che dormisse compiutamente, perdendo di vista la povera giovenca.Ma Giove non amava che si facessero sulla Terra, neppure dagli Dei, ingiuste ed inutili crudeltà. Chiamò dunque il furbo Mercurio, messaggero alato del Cielo, e gli disse: "Metti in opera tutto il tuo ingegno, alato Dio veloce,ma libera a qualunque costo la povera Io, che Giunone ha trasformata in giovenca." "Sarai soddisfatto di me" rispose il Dio astuto. "Ho già il mio piano". E preso il flauto, il caduceo d'argento donatogli da Apollo e il casco scintillante, Mercurio si lanciò come una freccia attraverso gli spazi, finché giunse nella prateria dove era relegata la povera fanciulla. Era l'imbrunire e Argo, addossato ad un albero si accingeva a chiudere una metà degli occhi per appisolarsi. Mercurio gli si sedette vicino come se volesse tenergli compagnia, e cominciò a suonare il flauto. Modulò dolcemente le note, con lentezza studiata creò inimitabili carezzevoli canzoni, si dilungò in armonie deliziose, trasse insomma dal suo flauto magico le più snervanti melodie che mai fossero state immaginate.Argo ascoltava rapito. Ma che fatica tenere aperti i cinquanta occhi, con quel torpore che gli dava quella musica divina! A poco a poco il capo del mostro si piegò qualche occhio si chiuse a sua insaputa,un letargo invincibile lo prese, finché tutti e cinquanta gli occhi imitarono gli altri e si chiusero in un sonno profondo.
Mercurio diede un piccolo grido di gioia. Col sonno di Argo l'incantesimo della giovenca era rotto e nella prateria, al posto della giovenca, c'era una splendida fanciulla! Mercurio fu lesto a prenderla fra le braccia e a riportarla al suo regno con indescrivibile gioia. Ma Giunone, quando seppe del tranello teso da Mercurio al mostro, e della liberazione di Io, credette di scoppiare per il dispetto. Punì il dormiglione guardiano, togliendogli ad uno ad uno tutti e cento gli occhi e con essi arricchì di variegati disegni tondi la coda del pavone, l'animale a lei caro.
Viveva una volta, sempre nei favolosi tempi mitologici, una principessa di nome Io. La fama della sua avvenenza era così grande e incontrastata, che, si diceva, neppure le Dee dell'Olimpo potevano essere così belle.
Giunone, la sovrana dalla bianche braccia e dalla superba bellezza, fu irritata da questo e, per eliminare quella rivale troppo splendente, la trasformò in una bianca giovenca. La relegò in una solitaria prateria e, perché non fuggisse, le mise accanto come guardiano il mostruoso Argo, il quale aveva nientedimeno che cento occhi. Al sorgere del sole, Argo si destava e ne apriva metà, mentre apriva l'altra metà al calar delle tenebre; così non c'era mai pericolo che dormisse compiutamente, perdendo di vista la povera giovenca.Ma Giove non amava che si facessero sulla Terra, neppure dagli Dei, ingiuste ed inutili crudeltà. Chiamò dunque il furbo Mercurio, messaggero alato del Cielo, e gli disse: "Metti in opera tutto il tuo ingegno, alato Dio veloce,ma libera a qualunque costo la povera Io, che Giunone ha trasformata in giovenca." "Sarai soddisfatto di me" rispose il Dio astuto. "Ho già il mio piano". E preso il flauto, il caduceo d'argento donatogli da Apollo e il casco scintillante, Mercurio si lanciò come una freccia attraverso gli spazi, finché giunse nella prateria dove era relegata la povera fanciulla. Era l'imbrunire e Argo, addossato ad un albero si accingeva a chiudere una metà degli occhi per appisolarsi. Mercurio gli si sedette vicino come se volesse tenergli compagnia, e cominciò a suonare il flauto. Modulò dolcemente le note, con lentezza studiata creò inimitabili carezzevoli canzoni, si dilungò in armonie deliziose, trasse insomma dal suo flauto magico le più snervanti melodie che mai fossero state immaginate.Argo ascoltava rapito. Ma che fatica tenere aperti i cinquanta occhi, con quel torpore che gli dava quella musica divina! A poco a poco il capo del mostro si piegò qualche occhio si chiuse a sua insaputa,un letargo invincibile lo prese, finché tutti e cinquanta gli occhi imitarono gli altri e si chiusero in un sonno profondo.
Mercurio diede un piccolo grido di gioia. Col sonno di Argo l'incantesimo della giovenca era rotto e nella prateria, al posto della giovenca, c'era una splendida fanciulla! Mercurio fu lesto a prenderla fra le braccia e a riportarla al suo regno con indescrivibile gioia. Ma Giunone, quando seppe del tranello teso da Mercurio al mostro, e della liberazione di Io, credette di scoppiare per il dispetto. Punì il dormiglione guardiano, togliendogli ad uno ad uno tutti e cento gli occhi e con essi arricchì di variegati disegni tondi la coda del pavone, l'animale a lei caro.
- lagunablu69
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14 Anni 10 Mesi fa #4186
da lagunablu69
Risposta da lagunablu69 al topic Re:Miti e Leggende
Venere (Afrodite)
I greci la chiamavano Afrodite, perché era nata dalla spuma (aphròs) del mare. Era figlia del Cielo e del Mare: divinità più mediterranea di così…!
Ed era bella, bellissima, anzi la raffigurazione divina della bellezza assoluta: e fu sùbito annoverata fra i vip dell’Olimpo, perché una bellezza così folgorante non poteva essere mortale.
Venere vive, si può dire, ancora oggi, perché è la dea dell’amore e della seduzione: persino dèi rozzi come il brutto Vulcano, che ne fu il marito, -
o “rambo” nerboruti come Marte, che ne fu uno degli amanti, ne subirono il fascino ( godendone ovviamente anche delle… generose prestazioni ). Mentre altre dèe nutrivano verso di lei un forse giustificabile risentimento.
Fu una dea capricciosa e volubile, e molti guai combinò ai mortali suscitando o sciogliendo vincoli e passioni amorose. Capricci di cui essa stessa fu poi a sua volta vittima, quando il suo malizioso figlio, Amore (Eros), le scagliò una delle sue frecce e la fece invaghire di Adone: un giovane e bellissimo cacciatore, la cui prematura morte gettò l’innamorata dea nella disperazione. Il burbero-benefico Giove, che di amori e amorazzi se ne intendeva, se ne impietosì e consentì che ogni anno il bell’Adone tornasse fra i vivi e trascorresse quattro mesi con l’amata dea. Ed è in questa resurrezione che gli antichi videro l’eterno rifiorire della natura e il risorgere di ogni tenace amore.
I greci la chiamavano Afrodite, perché era nata dalla spuma (aphròs) del mare. Era figlia del Cielo e del Mare: divinità più mediterranea di così…!
Ed era bella, bellissima, anzi la raffigurazione divina della bellezza assoluta: e fu sùbito annoverata fra i vip dell’Olimpo, perché una bellezza così folgorante non poteva essere mortale.
Venere vive, si può dire, ancora oggi, perché è la dea dell’amore e della seduzione: persino dèi rozzi come il brutto Vulcano, che ne fu il marito, -
o “rambo” nerboruti come Marte, che ne fu uno degli amanti, ne subirono il fascino ( godendone ovviamente anche delle… generose prestazioni ). Mentre altre dèe nutrivano verso di lei un forse giustificabile risentimento.
Fu una dea capricciosa e volubile, e molti guai combinò ai mortali suscitando o sciogliendo vincoli e passioni amorose. Capricci di cui essa stessa fu poi a sua volta vittima, quando il suo malizioso figlio, Amore (Eros), le scagliò una delle sue frecce e la fece invaghire di Adone: un giovane e bellissimo cacciatore, la cui prematura morte gettò l’innamorata dea nella disperazione. Il burbero-benefico Giove, che di amori e amorazzi se ne intendeva, se ne impietosì e consentì che ogni anno il bell’Adone tornasse fra i vivi e trascorresse quattro mesi con l’amata dea. Ed è in questa resurrezione che gli antichi videro l’eterno rifiorire della natura e il risorgere di ogni tenace amore.
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- lagunablu69
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14 Anni 10 Mesi fa #4187
da lagunablu69
Risposta da lagunablu69 al topic Re:Miti e Leggende
Il carro del sole
Apollo era il dio del sole e aveva il compito di guidare ogni giorno l'astro infuocato nel suo cammino lungo i sentieri infiniti del cielo.
All'alba, Apollo si poneva alla guida di uno splendido cocchio di fuoco, trainato da quattro cavalli alati. L'Aurora precedeva il carro spargendo rose ai confini del cielo; le Ore lo attorniavano.
A mano a mano che il carro avanzava, la luce aumentava e l'Universo veniva inondato di fiamme e di bagliori.
Quando giungeva al culmine del suo viaggio, il cocchio del dio ardeva di un tale fuoco che tutta la natura crepitava, come in preda a un incendio.
Poi la luce che circondava Apollo diventava a poco a poco meno accecante.
I cavalli, continuando la loro corsa sfrenata, si dirigevano verso il mare.
Il carro di Apollo, simile a un globo infuocato, attraversava la morbida grotta delle nubi, si tuffava nelle onde e veniva inghiottito dal mare, mentre il cielo passava dall'azzurro al rosato al violetto e infine si ammantava del nero più profondo.
Apollo era il dio del sole e aveva il compito di guidare ogni giorno l'astro infuocato nel suo cammino lungo i sentieri infiniti del cielo.
All'alba, Apollo si poneva alla guida di uno splendido cocchio di fuoco, trainato da quattro cavalli alati. L'Aurora precedeva il carro spargendo rose ai confini del cielo; le Ore lo attorniavano.
A mano a mano che il carro avanzava, la luce aumentava e l'Universo veniva inondato di fiamme e di bagliori.
Quando giungeva al culmine del suo viaggio, il cocchio del dio ardeva di un tale fuoco che tutta la natura crepitava, come in preda a un incendio.
Poi la luce che circondava Apollo diventava a poco a poco meno accecante.
I cavalli, continuando la loro corsa sfrenata, si dirigevano verso il mare.
Il carro di Apollo, simile a un globo infuocato, attraversava la morbida grotta delle nubi, si tuffava nelle onde e veniva inghiottito dal mare, mentre il cielo passava dall'azzurro al rosato al violetto e infine si ammantava del nero più profondo.
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- Consuelo
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14 Anni 10 Mesi fa #4214
da Consuelo
Risposta da Consuelo al topic Re:Miti e Leggende
Persefone
Demetra, dea delle messi, aveva una figlia di nome Core. Un giorno, Core mentre raccoglieva fiori, vide la terra aprirsi sotto ai suoi piedi e da essa uscì Ade, re dell'Oltretomba, sopra ad un carro trainato da quattro cavalli neri come la pece. Ade si era innamorato della fanciulla e, per questo era uscito dal suo nero regno per portarsela via con sé. Le grida di disperazione di Core si udivano ancora nell'aria,ma ormai essa era dentro la voragine,rapita dal feroce Ade.
Demetra in quel istante sentì le urla e dopo essersi vestita a lutto cominciò a vagare in cerca di Core. Vagò nove giorni e nove notti senza ottenere nulla e alla fine si recò da Elio, il sole, che aveva visto tutto quello che era successo."Demetra, non cercare Core" disse ed aggiunse: "Tua figlia ora é la sposa di Ade ed il suo nuovo nome é Persefone".Udite queste parole, Demetra, che era la più mite degli dei, emise un urlo talmente forte che di colpo tutti i fiori e le piante smisero di crescere.Dopo poco tempo la terra diventò un deserto e nulla valse la supplica degli dei... Demetra non si placò.Allora Zeus, ordinò ad Ade di riportare la fanciulla sulla terra, purché non avesse ancora mangiato il cibo dei morti. Persefone aveva ingerito solamente sei semi di melagrana,portati dal giardiniere Ascolaphus e così Ade dovette rassegnarsi. Appena giunse sulla terra, la fanciulla corse subito ad riabbracciare la madre Demetra che, immediatamente cessò la sua collera facendo tornare la terra verde e piena di fiori.
Zeus, allora, si avvicinò a Persefone, e le disse che ogni anno sarebbe dovuta rientrare nell'Oltretomba per sei mesi come sposa di Ade e, per ogni seme che aveva mangiato ci sarebbe stato un mese d'inverno. Gli altri sei mesi, ossia la primavera e l'estate, Persefone sarebbe tornata al mondo dei Vivi vicino a sua madre Demetra.
Demetra, dea delle messi, aveva una figlia di nome Core. Un giorno, Core mentre raccoglieva fiori, vide la terra aprirsi sotto ai suoi piedi e da essa uscì Ade, re dell'Oltretomba, sopra ad un carro trainato da quattro cavalli neri come la pece. Ade si era innamorato della fanciulla e, per questo era uscito dal suo nero regno per portarsela via con sé. Le grida di disperazione di Core si udivano ancora nell'aria,ma ormai essa era dentro la voragine,rapita dal feroce Ade.
Demetra in quel istante sentì le urla e dopo essersi vestita a lutto cominciò a vagare in cerca di Core. Vagò nove giorni e nove notti senza ottenere nulla e alla fine si recò da Elio, il sole, che aveva visto tutto quello che era successo."Demetra, non cercare Core" disse ed aggiunse: "Tua figlia ora é la sposa di Ade ed il suo nuovo nome é Persefone".Udite queste parole, Demetra, che era la più mite degli dei, emise un urlo talmente forte che di colpo tutti i fiori e le piante smisero di crescere.Dopo poco tempo la terra diventò un deserto e nulla valse la supplica degli dei... Demetra non si placò.Allora Zeus, ordinò ad Ade di riportare la fanciulla sulla terra, purché non avesse ancora mangiato il cibo dei morti. Persefone aveva ingerito solamente sei semi di melagrana,portati dal giardiniere Ascolaphus e così Ade dovette rassegnarsi. Appena giunse sulla terra, la fanciulla corse subito ad riabbracciare la madre Demetra che, immediatamente cessò la sua collera facendo tornare la terra verde e piena di fiori.
Zeus, allora, si avvicinò a Persefone, e le disse che ogni anno sarebbe dovuta rientrare nell'Oltretomba per sei mesi come sposa di Ade e, per ogni seme che aveva mangiato ci sarebbe stato un mese d'inverno. Gli altri sei mesi, ossia la primavera e l'estate, Persefone sarebbe tornata al mondo dei Vivi vicino a sua madre Demetra.
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14 Anni 10 Mesi fa #4237
da LaDea
Risposta da LaDea al topic Re:Miti e Leggende
La leggenda di Elena Degli Angeli
Elena Ducas, la moglie di Manfredi di Svevia, figlio del grande Federico II. Elena ebbe vita breve, morì senza compiere neppure 30 anni, perchè in seguito alla morte del marito durante la battaglia di Benevento, venne imprigionata da Carlo d'Angiò e condotta qui, dove passò gli ultimi momenti della sua vita, nella totale tristezza, lontana anche dai suoi figli, imprigionati a Castel del Monte. Avvolta nella totale tristezza e nel dolore si lasciò morire d'inedia. La beffa per questa povera donna è che questa rocca è la stessa in cui ebbe vita felice con la sua famiglia, perchè qui passò i più bei momenti della sua esistenza. Esiste una leggenda che riguarda il castello.
Essa narra che lo spirito della povera Elena, chiamata anche "Elena degli angeli", non abbia mai abbandonato questo luogo, perchè in eterna attesa del ritorno dell'amato marito e dei suoi figli. Si dice che al tramonto si possa a volte intravvedere il fantasma della bellissima Elena vestita di bianco, nascosta dietro le tende di una della finestre e con in mano una lanterna, a guardare singhiozzando con lamenti disperati l'orizzonte lontano. Si dice che lo stesso Manfredi avvolto da un manto verde cavalchi uno splendido cavallo bianco la campagna circostante alla ricerca a sua volta dell'amata. Ma nessuno dei due riesce a scorgere l'altro e si perdono in un'eterna ricerca, destinati anche nell'aldilà a non incontrarsi mai
Elena Ducas, la moglie di Manfredi di Svevia, figlio del grande Federico II. Elena ebbe vita breve, morì senza compiere neppure 30 anni, perchè in seguito alla morte del marito durante la battaglia di Benevento, venne imprigionata da Carlo d'Angiò e condotta qui, dove passò gli ultimi momenti della sua vita, nella totale tristezza, lontana anche dai suoi figli, imprigionati a Castel del Monte. Avvolta nella totale tristezza e nel dolore si lasciò morire d'inedia. La beffa per questa povera donna è che questa rocca è la stessa in cui ebbe vita felice con la sua famiglia, perchè qui passò i più bei momenti della sua esistenza. Esiste una leggenda che riguarda il castello.
Essa narra che lo spirito della povera Elena, chiamata anche "Elena degli angeli", non abbia mai abbandonato questo luogo, perchè in eterna attesa del ritorno dell'amato marito e dei suoi figli. Si dice che al tramonto si possa a volte intravvedere il fantasma della bellissima Elena vestita di bianco, nascosta dietro le tende di una della finestre e con in mano una lanterna, a guardare singhiozzando con lamenti disperati l'orizzonte lontano. Si dice che lo stesso Manfredi avvolto da un manto verde cavalchi uno splendido cavallo bianco la campagna circostante alla ricerca a sua volta dell'amata. Ma nessuno dei due riesce a scorgere l'altro e si perdono in un'eterna ricerca, destinati anche nell'aldilà a non incontrarsi mai
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