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Miti e Leggende
Riduci
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14 Anni 11 Mesi fa #3686
da LaDea
Risposta da LaDea al topic Re:Miti e Leggende
LE ORIGINI DELL'AMORE
Nell'oscurità del Tempo... all'alba del Mondo
vi erano in ORIGINE 3 tipi di umani, quindi... 3 SESSI.
Il primo quello nato dal SOLE erano i MASCHI.
Il secondo quello nato dalla LUNA: le FEMMINE,
e in fine il terzo , quello proprio della TERRA: gli ERMAFRODITI.
Ognuno di questi tre sessi era doppio... esseri doppi ma uniti in tutto.
Due corpi umani uno opposto all'altro ma una sola cosa.
Come gemelli siamesi, ma più compatti ancora, insomma come GIANO BIFRONTE... ricordate?
Si trattava di un essere UNICO ma con quattro gambe, quattro braccia, quattro mani... due genitali esattamente uguali nei MASCHI e nelle FEMMINE, mentre opposti negli ERMAFRODITI: un genitale maschile ed uno femminile.
Tutte queste doppie parti erano riunite perfettamente in un ESSERE UNICO, COMPLETO...
Felice, forte e, soprattutto, indipendente e innamorato poiché una metà era perfettamente innamorata dell'ALTRA!
Questo sentirsi così potenti, indipendenti e felici creò in loro la presunzione di sferzare un attacco agli Dei dell'Olimpo, per ribellarsi così alla supremazia di Zeus.
Zeus infuriato per questa estrema arroganza pensò da prima di distruggere per sempre e togliere dal Mondo questa perfetta ma primitiva razza umana.
Poi mosso da compassione decise di risparmiarla e, senza distruggerla, volle però indebolirla per sempre.
E il modo più furbo e strategico per indebolire quegli esseri così sicuri e arroganti fu di dividerli esattamente a metà!
Per il resto del TEMPO, questi miserabili esseri ormai impoveriti e divisi avrebbero passato la loro esistenza alla ricerca di un bacio, un abbraccio che riannodasse... ricongiungesse quelle loro due parti separate per sempre!
Tutta la loro vita sarebbe stata spesa nella ricerca di ricongiungere quel sacro corpo profanato....tagliato in due!
A questo girovagare per Mondo & Vita alla ricerca cerca dell'altro se stesso sperduto e separato.
A questa spasmodica voglia di ricucirsi di nuovo assieme.
A questa nuova e strana specie di malattia, imperfezione, debolezza o demenza umana, gli dei diedero un nome preciso: AMORE...
Nell'oscurità del Tempo... all'alba del Mondo
vi erano in ORIGINE 3 tipi di umani, quindi... 3 SESSI.
Il primo quello nato dal SOLE erano i MASCHI.
Il secondo quello nato dalla LUNA: le FEMMINE,
e in fine il terzo , quello proprio della TERRA: gli ERMAFRODITI.
Ognuno di questi tre sessi era doppio... esseri doppi ma uniti in tutto.
Due corpi umani uno opposto all'altro ma una sola cosa.
Come gemelli siamesi, ma più compatti ancora, insomma come GIANO BIFRONTE... ricordate?
Si trattava di un essere UNICO ma con quattro gambe, quattro braccia, quattro mani... due genitali esattamente uguali nei MASCHI e nelle FEMMINE, mentre opposti negli ERMAFRODITI: un genitale maschile ed uno femminile.
Tutte queste doppie parti erano riunite perfettamente in un ESSERE UNICO, COMPLETO...
Felice, forte e, soprattutto, indipendente e innamorato poiché una metà era perfettamente innamorata dell'ALTRA!
Questo sentirsi così potenti, indipendenti e felici creò in loro la presunzione di sferzare un attacco agli Dei dell'Olimpo, per ribellarsi così alla supremazia di Zeus.
Zeus infuriato per questa estrema arroganza pensò da prima di distruggere per sempre e togliere dal Mondo questa perfetta ma primitiva razza umana.
Poi mosso da compassione decise di risparmiarla e, senza distruggerla, volle però indebolirla per sempre.
E il modo più furbo e strategico per indebolire quegli esseri così sicuri e arroganti fu di dividerli esattamente a metà!
Per il resto del TEMPO, questi miserabili esseri ormai impoveriti e divisi avrebbero passato la loro esistenza alla ricerca di un bacio, un abbraccio che riannodasse... ricongiungesse quelle loro due parti separate per sempre!
Tutta la loro vita sarebbe stata spesa nella ricerca di ricongiungere quel sacro corpo profanato....tagliato in due!
A questo girovagare per Mondo & Vita alla ricerca cerca dell'altro se stesso sperduto e separato.
A questa spasmodica voglia di ricucirsi di nuovo assieme.
A questa nuova e strana specie di malattia, imperfezione, debolezza o demenza umana, gli dei diedero un nome preciso: AMORE...
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14 Anni 11 Mesi fa #3696
da LaDea
Risposta da LaDea al topic Re:Miti e Leggende
La signora delle acque
L'estate non era ancora finita, anzi a metà Settembre nell'alta Valle le temperature erano ancora elevate, dal massiccio imbiancato di neve fresca, il forte riverbero abbagliava con la sua luce cangiante il cammino di Thannos, il giovane guerriero celta, doveva compiere una missione, di là dal gran monte, là dove nasceva Rhonos, il Reno. La missione consisteva nel prelevare le acque sacre della Dea, metterle in un'ampolla trasparente, ma molto delicata, bastava un piccolo urto contro una roccia, e l'ampolla, uscita dalle alchimie del popolo Etrusco s'infrangesse in piccole schegge, più taglienti della lama della sua spada. Le acque sacre della Signora, erano proibite ai mortali, Solo Thannos discendente diretto dal figlio d'Odino, poteva immergere le mani nel liquido infinito della fonte del Rhonos. Il rituale che si doveva ripetere ogni inizio della stagione autunnale, doveva contribuire a rigenerare gli altri due figli di Rhonos: il Rodano e il Ticino. La fonte primordiale del gran bacino imbrifero, doveva essere prelevata proprio alla caduta della prima neve. La Divinità era severissima con Chi non ne fosse degno.
Coloro che celavano sconsideratezze, venivano colti in flagrante, pietrificati dai vapori della grande cascata, posta a metà cammino, sul lato occidentale, di fronte ad un costone di roccia, il quale ingrandisce ogni volta che un pretendente si sottoponeva alla severa prova. Nella seconda metà di Settembre, il periodo in cui si manifestava, l'enorme valanga d'acqua, che la Dea faceva cadere dalla sommità della montagna da un punto quasi invisibile, s'ingrossava talmente da formare un'insormontabile barriera a chi proveniva da Sud. L'unico modo per sottrarsi al muro d'acqua era quello di mettersi al riparo su di una roccia posta al centro valle, che stava dalla parte opposta. Ii pretendenti dovevano arrampicarsi nudi su quelli che erano stati una volta degli uomini, ora pietrificati, dovevano raggiungere la cima del patibolo, scusate, lo sperone, alzare le braccia alla Dea, ed attendere che i vapori del tuono del diluvio lambisse loro la fronte. Chi avesse taciuto, nascosto anche un'infamia, avesse fatto una deturpazione ad un essere vivente, o avesse lordato le pure acque della Dea, ovviamente c'entravano anche i pensieri malevoli degli umani che essi tenevano celati.
Thannos era stato prescelto, per la sua lealtà, saggezza, vigore, volontà, non aveva mai infranto le regole d'Odino, sapeva rispettare, ogni essere o cosa che appartenesse alla Natura, sulle sacre Alpi, andava con umiltà e teneva in alta considerazione, i doni che la prodiga, incontaminata Natura, concedeva alle popolazioni celtiche. Thannos non aveva bisogno di dimostrare a nessuno al villaggio, che sarebbe diventato il capo e il Druido. Avvertiva il contatto con la trilogia d'Odino, come una cosa innata, da bambino aveva per compagno di giochi un enorme lupo grigio, che riteneva il pupo biondo un cucciolo del suo gruppo, un giovane capo branco. Una grande aquila dal ciuffo e dal capo bianco, veniva a posarsi spesso vicino la casa del fanciullo dai riccioli del Sole, era Odino stesso, come un comune nonno, si divertiva a vedere i giochi, dalla fantasia troppo sviluppata per un bambino di quattro anni, il suo contagioso sorriso, carpiva le concentrazioni della sua gente. Thannos era pronto alla prova: vincolato al giuramento doveva pronunciare un saluto alla Dea dell'acque, la Genitrice di tutti i fiumi, laghi, ruscelli, delle sorgenti, dei rivi, delle goccie di rugiada sui fiori; la lode del giovane celta , l'invocava così:
“ DEH! MAHTRONAE, CHE MAI RENDI IL TUO VOLTO, DEA DELLA SACRA FONTE DI VITA, RENDIMI FORTUNA E AMORE. CONCEDI IL DIVINO OVULO, ALLE STIRPI DI RHONOS. BENEDICI LE FORESTE, GLI ARMENTI, TONIFICA LE NOSTRE MEMBRA, CON LA TUA NATURA.”
Dopo avere pronunciato un atto d'amore e ringraziato la sua Signora, doveva correre, veloce come un cervo in alto, oltre ai 2000 metri, verso le sorgenti, la prima stava in Nord oltre la vetta della Montagna, la sorgente si celava con altre centinaia di rivi, Solo un bagliore azzurro, quando il Sole stava allo Zenith , per pochi attimi rilevava il punto esatto della sorgente, era il segnale che la Dea accordava al giovane Asi la presenza del pozzo magico del cristallo turchino: il limpido seme di Rhonos , doveva essere versato immediatamente, nei due embrioni del Ticino e del Rodano, Thannos doveva essere più veloce di un camoscio, saltare da masso a masso senza spargere nessuna goccia del fluido della vita. Lassù dove la Montagna ha un nome assoluto: gott'hard, Gottardo la roccia più compatta. Anche se le tre sorgenti , sono vicine, la distanza era considerevole, anche per un campione. Una gara con il tempo e gli Dei sulla tribuna: Odino, Thor e Freya osservavano il loro pupillo, gruppi di Asi e di Vani incitavano l'eroe. Nel cielo si formava un doppio, triplo arcobaleni incrociati, che delimitavano l'arena dell' Olimpo alpino: ad Ovest, vi si trova la sorgente del Rodano, verso Sud Est quella del Ticino, mentre versava il contenuto dell'ampolla, Thannos dove pronunciare la formula magica: "Tèh Nihn, Tèh Nahn", che doveva essere detta contemporaneamente, sopra le acque sorgive: se il rito era stato compiuto come i Dei volevano si rinnoverà si ripeterà sino alla fine dei tempi, la Signora dell'acqua continuerà ad assicurare la linfa della giovinezza e la vita a tutte le creature della Terra…
L'estate non era ancora finita, anzi a metà Settembre nell'alta Valle le temperature erano ancora elevate, dal massiccio imbiancato di neve fresca, il forte riverbero abbagliava con la sua luce cangiante il cammino di Thannos, il giovane guerriero celta, doveva compiere una missione, di là dal gran monte, là dove nasceva Rhonos, il Reno. La missione consisteva nel prelevare le acque sacre della Dea, metterle in un'ampolla trasparente, ma molto delicata, bastava un piccolo urto contro una roccia, e l'ampolla, uscita dalle alchimie del popolo Etrusco s'infrangesse in piccole schegge, più taglienti della lama della sua spada. Le acque sacre della Signora, erano proibite ai mortali, Solo Thannos discendente diretto dal figlio d'Odino, poteva immergere le mani nel liquido infinito della fonte del Rhonos. Il rituale che si doveva ripetere ogni inizio della stagione autunnale, doveva contribuire a rigenerare gli altri due figli di Rhonos: il Rodano e il Ticino. La fonte primordiale del gran bacino imbrifero, doveva essere prelevata proprio alla caduta della prima neve. La Divinità era severissima con Chi non ne fosse degno.
Coloro che celavano sconsideratezze, venivano colti in flagrante, pietrificati dai vapori della grande cascata, posta a metà cammino, sul lato occidentale, di fronte ad un costone di roccia, il quale ingrandisce ogni volta che un pretendente si sottoponeva alla severa prova. Nella seconda metà di Settembre, il periodo in cui si manifestava, l'enorme valanga d'acqua, che la Dea faceva cadere dalla sommità della montagna da un punto quasi invisibile, s'ingrossava talmente da formare un'insormontabile barriera a chi proveniva da Sud. L'unico modo per sottrarsi al muro d'acqua era quello di mettersi al riparo su di una roccia posta al centro valle, che stava dalla parte opposta. Ii pretendenti dovevano arrampicarsi nudi su quelli che erano stati una volta degli uomini, ora pietrificati, dovevano raggiungere la cima del patibolo, scusate, lo sperone, alzare le braccia alla Dea, ed attendere che i vapori del tuono del diluvio lambisse loro la fronte. Chi avesse taciuto, nascosto anche un'infamia, avesse fatto una deturpazione ad un essere vivente, o avesse lordato le pure acque della Dea, ovviamente c'entravano anche i pensieri malevoli degli umani che essi tenevano celati.
Thannos era stato prescelto, per la sua lealtà, saggezza, vigore, volontà, non aveva mai infranto le regole d'Odino, sapeva rispettare, ogni essere o cosa che appartenesse alla Natura, sulle sacre Alpi, andava con umiltà e teneva in alta considerazione, i doni che la prodiga, incontaminata Natura, concedeva alle popolazioni celtiche. Thannos non aveva bisogno di dimostrare a nessuno al villaggio, che sarebbe diventato il capo e il Druido. Avvertiva il contatto con la trilogia d'Odino, come una cosa innata, da bambino aveva per compagno di giochi un enorme lupo grigio, che riteneva il pupo biondo un cucciolo del suo gruppo, un giovane capo branco. Una grande aquila dal ciuffo e dal capo bianco, veniva a posarsi spesso vicino la casa del fanciullo dai riccioli del Sole, era Odino stesso, come un comune nonno, si divertiva a vedere i giochi, dalla fantasia troppo sviluppata per un bambino di quattro anni, il suo contagioso sorriso, carpiva le concentrazioni della sua gente. Thannos era pronto alla prova: vincolato al giuramento doveva pronunciare un saluto alla Dea dell'acque, la Genitrice di tutti i fiumi, laghi, ruscelli, delle sorgenti, dei rivi, delle goccie di rugiada sui fiori; la lode del giovane celta , l'invocava così:
“ DEH! MAHTRONAE, CHE MAI RENDI IL TUO VOLTO, DEA DELLA SACRA FONTE DI VITA, RENDIMI FORTUNA E AMORE. CONCEDI IL DIVINO OVULO, ALLE STIRPI DI RHONOS. BENEDICI LE FORESTE, GLI ARMENTI, TONIFICA LE NOSTRE MEMBRA, CON LA TUA NATURA.”
Dopo avere pronunciato un atto d'amore e ringraziato la sua Signora, doveva correre, veloce come un cervo in alto, oltre ai 2000 metri, verso le sorgenti, la prima stava in Nord oltre la vetta della Montagna, la sorgente si celava con altre centinaia di rivi, Solo un bagliore azzurro, quando il Sole stava allo Zenith , per pochi attimi rilevava il punto esatto della sorgente, era il segnale che la Dea accordava al giovane Asi la presenza del pozzo magico del cristallo turchino: il limpido seme di Rhonos , doveva essere versato immediatamente, nei due embrioni del Ticino e del Rodano, Thannos doveva essere più veloce di un camoscio, saltare da masso a masso senza spargere nessuna goccia del fluido della vita. Lassù dove la Montagna ha un nome assoluto: gott'hard, Gottardo la roccia più compatta. Anche se le tre sorgenti , sono vicine, la distanza era considerevole, anche per un campione. Una gara con il tempo e gli Dei sulla tribuna: Odino, Thor e Freya osservavano il loro pupillo, gruppi di Asi e di Vani incitavano l'eroe. Nel cielo si formava un doppio, triplo arcobaleni incrociati, che delimitavano l'arena dell' Olimpo alpino: ad Ovest, vi si trova la sorgente del Rodano, verso Sud Est quella del Ticino, mentre versava il contenuto dell'ampolla, Thannos dove pronunciare la formula magica: "Tèh Nihn, Tèh Nahn", che doveva essere detta contemporaneamente, sopra le acque sorgive: se il rito era stato compiuto come i Dei volevano si rinnoverà si ripeterà sino alla fine dei tempi, la Signora dell'acqua continuerà ad assicurare la linfa della giovinezza e la vita a tutte le creature della Terra…
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14 Anni 11 Mesi fa #3713
da LaDea
Risposta da LaDea al topic Re:Miti e Leggende
Il giovane angelo non aveva mai avuto uno specchio del genere.
A guardarci dentro non appariva la sua immagine riflessa, ma un caleidoscopio di colori così brillanti che in tutta la sua vita eterna non ne aveva mai visti di eguali.
Sgranando gli occhi si potevano distinguere foreste vergini cariche di vita, oceani incontaminati con infinite varietà di pesci, pianure verdeggianti, colline ricoperte di foglie rosso fuoco, tramonti su ghiacciai e albe su campi di girasoli.
“Dov’è tanta meraviglia?” – si chiese.
“Che sia la terra?”
E partì in missione. A un nascituro mancava l’angelo custode e lui si offrì volentieri, così avrebbe avuto un passaggio gratis.
Ma la terra che vide era molto diversa. Fumo nero, aria pesante,
alberi stanchi, mari densi… nulla di ciò che sperava di trovare.
E il bimbo che appena nato brillava come una stella,
più assorbiva quel grigiore più opacizzava.
“Non è possibile!” – tuonò l’angelo.
“Chissà se lo specchio…” – e glielo mise davanti.
Alla vista di una natura così rigogliosa il neonato riacquistò i suoi colori e non pianse più.
Felice di avere ritrovato i suoi paesaggi, la sua terra, la sua casa.
E da allora l’angelo ha un gran daffare a metterci di fronte quello specchio.
Per ricordarci colori in cui spesso non crediamo più, ma che rivedremo ancora.
A guardarci dentro non appariva la sua immagine riflessa, ma un caleidoscopio di colori così brillanti che in tutta la sua vita eterna non ne aveva mai visti di eguali.
Sgranando gli occhi si potevano distinguere foreste vergini cariche di vita, oceani incontaminati con infinite varietà di pesci, pianure verdeggianti, colline ricoperte di foglie rosso fuoco, tramonti su ghiacciai e albe su campi di girasoli.
“Dov’è tanta meraviglia?” – si chiese.
“Che sia la terra?”
E partì in missione. A un nascituro mancava l’angelo custode e lui si offrì volentieri, così avrebbe avuto un passaggio gratis.
Ma la terra che vide era molto diversa. Fumo nero, aria pesante,
alberi stanchi, mari densi… nulla di ciò che sperava di trovare.
E il bimbo che appena nato brillava come una stella,
più assorbiva quel grigiore più opacizzava.
“Non è possibile!” – tuonò l’angelo.
“Chissà se lo specchio…” – e glielo mise davanti.
Alla vista di una natura così rigogliosa il neonato riacquistò i suoi colori e non pianse più.
Felice di avere ritrovato i suoi paesaggi, la sua terra, la sua casa.
E da allora l’angelo ha un gran daffare a metterci di fronte quello specchio.
Per ricordarci colori in cui spesso non crediamo più, ma che rivedremo ancora.
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14 Anni 11 Mesi fa #3736
da LaDea
Risposta da LaDea al topic Re:Miti e Leggende
L'erica bianca (Calluna Vulgaris) è uno dei simboli porta fortuna più famosi della Scozia. Questa pianta, molto diffusa in tutto il Paese, nelle sue varie tonalità, viene donata alle persone care, sopratutto come augurio di felice matrimonio, se raccolta ancora fresca e stretta in un nastro in tartan.
La leggenda racconta che la figlia del bardo Ossian, Malvina, era una ragazza molto dolce e di indubbio fascino. La giovane donna era promessa sposa ad un valoroso e nobile guerriero di nome Oscar che fu costretto però a partire, in cerca di fortuna. In un giorno d'autunno, Malvina era intenta ad ascoltare il padre cantare, pensando all'amato partito per una battaglia, quando all'orizzonte vide una figura avvicinarsi tra l'erica. Era il messaggero di Oscar, ferito e sanguinante, venuto a portare notizie dell'amato a Malvina.
Oscar, durante un combattimento, era stato ferito a morte e non sarebbe mai più tornato a casa. Prima di morire, però, aveva raccolto un mazzetto di fiori da donare alla sua amata come segno di amore eterno. All'udire quelle parole, Malvina fuggì verso la collina scoppiando in un doloroso pianto. Una lacrima della giovane, scivolando sui petali dei fiori viola, li fece diventare improvvisamente bianchi. Malvina guardando i fiori allora esclamò "Che l'erica bianca, simbolo del mio dolore, porti fortuna a chiunque la trovi".
Che triste :°
La leggenda racconta che la figlia del bardo Ossian, Malvina, era una ragazza molto dolce e di indubbio fascino. La giovane donna era promessa sposa ad un valoroso e nobile guerriero di nome Oscar che fu costretto però a partire, in cerca di fortuna. In un giorno d'autunno, Malvina era intenta ad ascoltare il padre cantare, pensando all'amato partito per una battaglia, quando all'orizzonte vide una figura avvicinarsi tra l'erica. Era il messaggero di Oscar, ferito e sanguinante, venuto a portare notizie dell'amato a Malvina.
Oscar, durante un combattimento, era stato ferito a morte e non sarebbe mai più tornato a casa. Prima di morire, però, aveva raccolto un mazzetto di fiori da donare alla sua amata come segno di amore eterno. All'udire quelle parole, Malvina fuggì verso la collina scoppiando in un doloroso pianto. Una lacrima della giovane, scivolando sui petali dei fiori viola, li fece diventare improvvisamente bianchi. Malvina guardando i fiori allora esclamò "Che l'erica bianca, simbolo del mio dolore, porti fortuna a chiunque la trovi".
Che triste :°
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14 Anni 11 Mesi fa #3749
da LaDea
Risposta da LaDea al topic Re:Miti e Leggende
La leggenda del tulipano
Viveva in Olanda un contadino che traeva dalla terra i prodotti necessari al suo sostentamento. Egli conosceva soltanto le nozioni indispensabili alla propria sopravvivenza. Conosceva quindi il ritmo delle stagioni, e quando seminare e quando raccogliere, le erbe buone per nutrire le bestie da lui accudite, e le erbe cattive che le avrebbero avvelenate. Altro non sapeva: ignorava dunque l’esistenza delle grandi città che cominciavano a sorgere non molto lontano da lui, il concetto e l’utilità del denaro, i miracoli della sapienza degli uomini. Accadeva che, spinto dall’ansia di un’attesa senza scopo, si soffermasse talora ad osservare la lunga fuga dei campi verdi, di un verde monotono, sempre uguale, interrotto soltanto dagli ordinati canali di irrigazione che riflettevano il cielo. E il suo sguardo si spingeva fino all’orizzonte che dove lui viveva sembrava ancora più lontano di quanto non sia solitamente l’orizzonte, perché la sua terra piatta non era in alcun modo interrotta dalle linee ondulate dei monti. Poiché era giovane, talvolta un comando impellente correva nelle sue vene, ma egli ne ignorava il significato, perché da quando si ricordava, era sempre stato solo, e così pensava - se pure pensava un futuro che non fosse l’immediato accadere dopo il presente - che sempre sarebbe stato. Accadde tuttavia che un giorno, saltando senza motivo, in un impeto di felicità, un canale che scorreva quieto fra i verdi prati silenziosi che erano l’unico mondo da lui conosciuto, piombò in un mondo di bellezza che gli era ignoto: egli vide, spuntati tra l’erba sottile, fiori stupendi dai mille colori, aperti come ninfee, e sospesi su essi creature di luce, vestite di veli anch’essi dai mille colori, e con grandi ali leggere scintillanti d’argento, di quello scintillio che egli aveva scorto, nelle notti di luna piena, capovolto nei mille canali che attraversavano la sua placida terra .Erano innumerevoli,quelle creature, e ciascuna aveva in mano uno strumento fatto di luce, che suonava insieme alle altre, in armonia di suoni. Una sola tra tutte non possedeva alcuno strumento. Era la più bella di quegli esseri lucenti e muoveva piano le sue leggere ali di farfalla, e rideva felice, danzando la musica evocata dalle compagne, musica che il giovane era certo non fosse umana, anche se di umano non aveva mai udita altro suono che quello del vento che spazzava le grandi pianure che erano tutto il suo mondo. In quella bella creatura sorridente il giovane contadino concentrò alfine il comando imperioso che correva talvolta nelle sue vene, la somma di tutte le cose che sapeva esistere anche se gli erano sconosciute, l’ansia di bellezza che troppe volte lo aveva divorato quando osservava il mare fondersi nel cielo, all’orizzonte. E l’amò, senza nemmeno sapere che era amore, d’un subito, profondamente e inutilmente, con la disperazione di chi intuisce di amare l’irraggiungibile. La creatura fatata non conosceva purtroppo l’amore, poiché quello è un dono riservato agli uomini, ed anche loro solo raramente riescono a possederlo, ed ancor più raramente a condividerlo: la creatura era bella, buona e gentile, ma non poteva comprendere l’ansia che divorava il giovane umano.
Lui, a sua volta, che vedeva la bellezza e la bontà di lei, che si struggeva per la malia evocata dalla sua danza e dalla musica e dai canti delle fate compagne, si lasciò consumare dal desiderio di tutto questo fino a morirne, addormentandosi quieto, in un giorno d’aprile, al suono di quella musica, sull’argine del canale che un destino imperscrutabile, un giorno, gli aveva ordinato di attraversare. La regina delle fate, sfiorata forse per la prima ed unica volta in quella sua vita diversa da un senso di umana pietà, pur non comprendendo il motivo di quella morte, intuì confusamente di esserne la causa innocente, e volle che le terre che il giovane aveva amato in vita, fossero da allora, nel mese aprile, coperte dai fiori che servivano da casa alle fate. E’ da allora che ogni anno, nel mese di aprile, i tulipani fioriscono tutti insieme, a migliaia, coloratissimi, nella terra d’Olanda.
Viveva in Olanda un contadino che traeva dalla terra i prodotti necessari al suo sostentamento. Egli conosceva soltanto le nozioni indispensabili alla propria sopravvivenza. Conosceva quindi il ritmo delle stagioni, e quando seminare e quando raccogliere, le erbe buone per nutrire le bestie da lui accudite, e le erbe cattive che le avrebbero avvelenate. Altro non sapeva: ignorava dunque l’esistenza delle grandi città che cominciavano a sorgere non molto lontano da lui, il concetto e l’utilità del denaro, i miracoli della sapienza degli uomini. Accadeva che, spinto dall’ansia di un’attesa senza scopo, si soffermasse talora ad osservare la lunga fuga dei campi verdi, di un verde monotono, sempre uguale, interrotto soltanto dagli ordinati canali di irrigazione che riflettevano il cielo. E il suo sguardo si spingeva fino all’orizzonte che dove lui viveva sembrava ancora più lontano di quanto non sia solitamente l’orizzonte, perché la sua terra piatta non era in alcun modo interrotta dalle linee ondulate dei monti. Poiché era giovane, talvolta un comando impellente correva nelle sue vene, ma egli ne ignorava il significato, perché da quando si ricordava, era sempre stato solo, e così pensava - se pure pensava un futuro che non fosse l’immediato accadere dopo il presente - che sempre sarebbe stato. Accadde tuttavia che un giorno, saltando senza motivo, in un impeto di felicità, un canale che scorreva quieto fra i verdi prati silenziosi che erano l’unico mondo da lui conosciuto, piombò in un mondo di bellezza che gli era ignoto: egli vide, spuntati tra l’erba sottile, fiori stupendi dai mille colori, aperti come ninfee, e sospesi su essi creature di luce, vestite di veli anch’essi dai mille colori, e con grandi ali leggere scintillanti d’argento, di quello scintillio che egli aveva scorto, nelle notti di luna piena, capovolto nei mille canali che attraversavano la sua placida terra .Erano innumerevoli,quelle creature, e ciascuna aveva in mano uno strumento fatto di luce, che suonava insieme alle altre, in armonia di suoni. Una sola tra tutte non possedeva alcuno strumento. Era la più bella di quegli esseri lucenti e muoveva piano le sue leggere ali di farfalla, e rideva felice, danzando la musica evocata dalle compagne, musica che il giovane era certo non fosse umana, anche se di umano non aveva mai udita altro suono che quello del vento che spazzava le grandi pianure che erano tutto il suo mondo. In quella bella creatura sorridente il giovane contadino concentrò alfine il comando imperioso che correva talvolta nelle sue vene, la somma di tutte le cose che sapeva esistere anche se gli erano sconosciute, l’ansia di bellezza che troppe volte lo aveva divorato quando osservava il mare fondersi nel cielo, all’orizzonte. E l’amò, senza nemmeno sapere che era amore, d’un subito, profondamente e inutilmente, con la disperazione di chi intuisce di amare l’irraggiungibile. La creatura fatata non conosceva purtroppo l’amore, poiché quello è un dono riservato agli uomini, ed anche loro solo raramente riescono a possederlo, ed ancor più raramente a condividerlo: la creatura era bella, buona e gentile, ma non poteva comprendere l’ansia che divorava il giovane umano.
Lui, a sua volta, che vedeva la bellezza e la bontà di lei, che si struggeva per la malia evocata dalla sua danza e dalla musica e dai canti delle fate compagne, si lasciò consumare dal desiderio di tutto questo fino a morirne, addormentandosi quieto, in un giorno d’aprile, al suono di quella musica, sull’argine del canale che un destino imperscrutabile, un giorno, gli aveva ordinato di attraversare. La regina delle fate, sfiorata forse per la prima ed unica volta in quella sua vita diversa da un senso di umana pietà, pur non comprendendo il motivo di quella morte, intuì confusamente di esserne la causa innocente, e volle che le terre che il giovane aveva amato in vita, fossero da allora, nel mese aprile, coperte dai fiori che servivano da casa alle fate. E’ da allora che ogni anno, nel mese di aprile, i tulipani fioriscono tutti insieme, a migliaia, coloratissimi, nella terra d’Olanda.
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da LaDea
Risposta da LaDea al topic Re:Miti e Leggende
Nelle notti buie, flagellate dalla tempesta, mentre la povera gente dei campi va a riposare nei tuguri, stanchi delle fatiche del giorno, mentre i lampi guizzano nel cielo fosco scroscia la pioggia, ingrossando i rigagnoli delle strade ed il tuono rimbomba cupo e tetro a valle fra le gole dei monti, allo scoccar della mezzanotte si affaccia alla finestra del nostro castello che guarda a mezzogiorno uno spettro dalle occhiaie incavate dai lunghi capelli disciolti ed ondeggianti al vento; guarda a più riprese e si ritira, per ritornare ad affacciarsi altre volte nel mistero della notte fonda.
Non è il vento che fischia tra i merli degli spalti e tra i finestroni delle torri, o tra gli alberi dei giardini o della collina, non è il tuono che rumoreggia tra il balenare frequente dei lampi e lo scrosciar della pioggia, ma è la voce roca profonda e spaventosa della Regina Vipera che attende questa notte per tornare alla ribalta della storia.
Non è morta, ma riposa soltanto, da secoli, nei meandri oscuri e profondi del vecchio maniero.
Riposa; e di quando in quando ha i suoi risvegli di cui usufruisce per rivedere la sua casa, le sue terre, quello che fu il suo feudo. Ed allora il suo sguardo cosi acuto e profondo che, guardandoti ti agghiaccia il sangue nelle vene, si chiama fulmine, e la sua voce stridula si chiama civetta, ed il suo riso pazzo si chiama vento, ed il suo pianto si chiama uragano.
Verso mattina, quando tutto si placa, ed il cielo comincia a tingersi dei colori dell’aurora, e le nubi se ne fuggono oltre le catene dei monti per dar luogo ad un bel cielo sereno, anche quassù ritorna la pace, perché la Regina ritorna negli anfratti che sanno di catacomba a dormire il suo sonno grave di tormenti e di secoli.
C’è stato un tempo che la vide bella giovane ed ammirata dai cavalieri che venivano vestiti di corazza e di cimiero, per offrire il servizio della loro spada a suo padre ed a lei il tributo del loro ossequio.
In suo onore si tenevano grandi feste e magnifici tornei, mentre nel coro dei cavalieri maturavano, ingigantivano le invidie e le gelosie. La giovane principessa era così buona, affabile, gentile con tutti che davvero non si accorgeva della trama di morte che andava ordendosi per amore di lei e contro di lei….
E la fama di tanta gentilezza andava spargendosi ovunque, portata dagli stessi cavalieri che avevano avuto la ventura di combattere al servizio di suo padre, o nei tornei del suo magnifico palazzo.
Ed a bene del popolo anche una fontanella aveva promesso, una magnifica fontanella sulla piazza antistante il castello; come già aveva tracciato il bel Naviglio che scorre ai piedi della collina ad irrigare la campagna feconda.
Ma, ecco, che l’ala della sventura venne a sfiorare quella giovane appena sbocciata ad ogni bel sogno della vita.
Durante una festa che preludeva il suo matrimonio, mentre ella passava raggiante di felicità in mezzo ai convitati, fu vista improvvisamente impallidire, gettare un grido di angoscia, e poi ... ridere ... ridere ... d’un riso convulso e amaro fatto di spasimo e di dolore ineffabile, gli occhi stranamente dilatati, la bocca contorta e rigata di schiuma, le braccia e le mani protese vanamente verso l’alto.
La bella e buona principessa era impazzita!
Strane e discordi voci si diffusero al riguardo; chi disse che avesse avuto notizie della morte improvvisa del fidanzato durante un torneo, chi fosse stata avvelenata, chi fosse stata punta dal morso di una vipera, chi fosse stata colta da un malore improvviso dal quale non sarebbe più guarita, chi le fosse stato propinato un filtro diabolico…
Fatto sta che da quel giorno nel suo palazzo calò il velo del dolore, del silenzio, dell’abbandono; e le finestre delle sale non s’illuminarono più a sera, e sugli spalti non risuonò più il passo cadenzato delle sentinelle, ed alle feritoie non apparvero più le lance ed i cimieri delle guardie; e l’edera venne a ricoprire indisturbata le muraglie e le torri; e l’erbaccia crebbe alta e folta sulle aiuole del giardino.
Unico segno di vita, e di spavento l’ululo insistente e lacerante del vento attraverso i sotterranei del castello che portano a Miralta, a Masino, e chi sa dove.
Ed in quell’ululo insistente è lacerante tutti ravvisano la voce della povera principessa rinchiusa a forza nelle sue torri, perché non avesse più a uscire, da quelli stessi che erano stati i suoi ammiratori, ed i suoi corteggiatori delusi.
Vipera!
E tale fu il nome col quale passò alla storia perché nei grovigli delle erbacce e dei rovi che ricoprivano la sua pietra tombale (l’orifizio del sotterraneo), apparvero molte vipere delle quali si narra che volessero vendicare la prigionia e la morte della sventurata principessa.
Guardando ora a distanza di secoli il castello e le finestre dalle quali ama affacciarsi nelle notti di tempesta il suo fantasma, un senso di profonda mestizia ti pervade l’animo, e resti muto ripensando all’infelice storia d’amore ed al tragico destino di una giovane Regina simbolo di tante altre giovani esistenze immolate dagli uomini sull’altare delle loro implacabili passioni
Non è il vento che fischia tra i merli degli spalti e tra i finestroni delle torri, o tra gli alberi dei giardini o della collina, non è il tuono che rumoreggia tra il balenare frequente dei lampi e lo scrosciar della pioggia, ma è la voce roca profonda e spaventosa della Regina Vipera che attende questa notte per tornare alla ribalta della storia.
Non è morta, ma riposa soltanto, da secoli, nei meandri oscuri e profondi del vecchio maniero.
Riposa; e di quando in quando ha i suoi risvegli di cui usufruisce per rivedere la sua casa, le sue terre, quello che fu il suo feudo. Ed allora il suo sguardo cosi acuto e profondo che, guardandoti ti agghiaccia il sangue nelle vene, si chiama fulmine, e la sua voce stridula si chiama civetta, ed il suo riso pazzo si chiama vento, ed il suo pianto si chiama uragano.
Verso mattina, quando tutto si placa, ed il cielo comincia a tingersi dei colori dell’aurora, e le nubi se ne fuggono oltre le catene dei monti per dar luogo ad un bel cielo sereno, anche quassù ritorna la pace, perché la Regina ritorna negli anfratti che sanno di catacomba a dormire il suo sonno grave di tormenti e di secoli.
C’è stato un tempo che la vide bella giovane ed ammirata dai cavalieri che venivano vestiti di corazza e di cimiero, per offrire il servizio della loro spada a suo padre ed a lei il tributo del loro ossequio.
In suo onore si tenevano grandi feste e magnifici tornei, mentre nel coro dei cavalieri maturavano, ingigantivano le invidie e le gelosie. La giovane principessa era così buona, affabile, gentile con tutti che davvero non si accorgeva della trama di morte che andava ordendosi per amore di lei e contro di lei….
E la fama di tanta gentilezza andava spargendosi ovunque, portata dagli stessi cavalieri che avevano avuto la ventura di combattere al servizio di suo padre, o nei tornei del suo magnifico palazzo.
Ed a bene del popolo anche una fontanella aveva promesso, una magnifica fontanella sulla piazza antistante il castello; come già aveva tracciato il bel Naviglio che scorre ai piedi della collina ad irrigare la campagna feconda.
Ma, ecco, che l’ala della sventura venne a sfiorare quella giovane appena sbocciata ad ogni bel sogno della vita.
Durante una festa che preludeva il suo matrimonio, mentre ella passava raggiante di felicità in mezzo ai convitati, fu vista improvvisamente impallidire, gettare un grido di angoscia, e poi ... ridere ... ridere ... d’un riso convulso e amaro fatto di spasimo e di dolore ineffabile, gli occhi stranamente dilatati, la bocca contorta e rigata di schiuma, le braccia e le mani protese vanamente verso l’alto.
La bella e buona principessa era impazzita!
Strane e discordi voci si diffusero al riguardo; chi disse che avesse avuto notizie della morte improvvisa del fidanzato durante un torneo, chi fosse stata avvelenata, chi fosse stata punta dal morso di una vipera, chi fosse stata colta da un malore improvviso dal quale non sarebbe più guarita, chi le fosse stato propinato un filtro diabolico…
Fatto sta che da quel giorno nel suo palazzo calò il velo del dolore, del silenzio, dell’abbandono; e le finestre delle sale non s’illuminarono più a sera, e sugli spalti non risuonò più il passo cadenzato delle sentinelle, ed alle feritoie non apparvero più le lance ed i cimieri delle guardie; e l’edera venne a ricoprire indisturbata le muraglie e le torri; e l’erbaccia crebbe alta e folta sulle aiuole del giardino.
Unico segno di vita, e di spavento l’ululo insistente e lacerante del vento attraverso i sotterranei del castello che portano a Miralta, a Masino, e chi sa dove.
Ed in quell’ululo insistente è lacerante tutti ravvisano la voce della povera principessa rinchiusa a forza nelle sue torri, perché non avesse più a uscire, da quelli stessi che erano stati i suoi ammiratori, ed i suoi corteggiatori delusi.
Vipera!
E tale fu il nome col quale passò alla storia perché nei grovigli delle erbacce e dei rovi che ricoprivano la sua pietra tombale (l’orifizio del sotterraneo), apparvero molte vipere delle quali si narra che volessero vendicare la prigionia e la morte della sventurata principessa.
Guardando ora a distanza di secoli il castello e le finestre dalle quali ama affacciarsi nelle notti di tempesta il suo fantasma, un senso di profonda mestizia ti pervade l’animo, e resti muto ripensando all’infelice storia d’amore ed al tragico destino di una giovane Regina simbolo di tante altre giovani esistenze immolate dagli uomini sull’altare delle loro implacabili passioni
- Consuelo
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14 Anni 11 Mesi fa #3799
da Consuelo
Risposta da Consuelo al topic Re:Miti e Leggende
Il mito del vampiro non è solamente un mito europeo, anche nelle americhe, fra i nativi americani, si sono trovate leggende che narrano di vampiri.
La leggenda narra di un potente guerriero, uomo della medicina che governava il proprio popolo con amore. Era sposato ma lui e la sua compagna non potevano avere figli.
Questo uomo della medicina un giorno, sconfortato dal fatto di non poter avere figli, sfidò il grande spirito, ma questi rimase sordo alla sfida come non aveva risposto alle sue preghiere.
Allora egli rivolse le sue preghiere agli spiriti maligni, compì atti proibiti ed un giorno aprì le porte del nostro mondo allo spirito Jumlin.
Questo spirito malvagio era potente ed oscuro e chiese come pagamento per fare in modo che la sua compagna avesse un bimbo sano e bello di poter lasciare il Mondo degli Spiriti d'Ombra per entrare un quello dei Viventi.
L'uomo disperato accettò, ma fu ingannato.
Lo spirito passato nel mondo dei viventi si impossessò dell'uomo della medicina insinuandosi nel suo cuore nella sua mente e nel suo corpo.
Jumlin era uno spirito forte, crudele e famelico, si nutriva del sangue dei viventi. Inizialmente degli animali ed infine delle genti della sua stessa tribù.
Jumlin esercitava i suoi poteri psichici e mentali, la sua forza aumentava al punto che nessuno osava opporgli resistenza.
La primavera successiva le donne che non erano state uccise partorirono figli sani e robusti, ma il numero degli uomini e donne della tribù continuava a diminuire.
Un gruppo di guerrieri decise di recarsi nel villaggio vicino per interrogare il loro uomo della medicina il quale rivelò loro dello spirito che si era impossessato del loro capo.
Tornarono diversi mesi dopo al villaggio e trovarono la compagna del capo gravida e molto malata, morì infatti dato alla luce il bambino.
Jumlin appreso del piano per distruggerlo fuggì con il figlio ed altri bambini del villaggio.
Per parecchio tempo egli venne inseguito dai guerrieri che dopo molti anni lo ritrovarono e riuscirono ad ucciderlo ma il figlio riuscì a fuggire.
Orso Che Ride, questo era il nome del figlio di Jumlin ed i suoi fratelli e sorelle si dice siano ancora in vita; che procreino con gli esseri umani o con quelli della propria specie per creare la prima razza dei propri "Genetici" o "Ereditari".
Possiedono poteri psichici, vivono in eterno, ed hanno una natura negativa.
Questo è ciò che è narrato dai miti dei Nativi Americani
La leggenda narra di un potente guerriero, uomo della medicina che governava il proprio popolo con amore. Era sposato ma lui e la sua compagna non potevano avere figli.
Questo uomo della medicina un giorno, sconfortato dal fatto di non poter avere figli, sfidò il grande spirito, ma questi rimase sordo alla sfida come non aveva risposto alle sue preghiere.
Allora egli rivolse le sue preghiere agli spiriti maligni, compì atti proibiti ed un giorno aprì le porte del nostro mondo allo spirito Jumlin.
Questo spirito malvagio era potente ed oscuro e chiese come pagamento per fare in modo che la sua compagna avesse un bimbo sano e bello di poter lasciare il Mondo degli Spiriti d'Ombra per entrare un quello dei Viventi.
L'uomo disperato accettò, ma fu ingannato.
Lo spirito passato nel mondo dei viventi si impossessò dell'uomo della medicina insinuandosi nel suo cuore nella sua mente e nel suo corpo.
Jumlin era uno spirito forte, crudele e famelico, si nutriva del sangue dei viventi. Inizialmente degli animali ed infine delle genti della sua stessa tribù.
Jumlin esercitava i suoi poteri psichici e mentali, la sua forza aumentava al punto che nessuno osava opporgli resistenza.
La primavera successiva le donne che non erano state uccise partorirono figli sani e robusti, ma il numero degli uomini e donne della tribù continuava a diminuire.
Un gruppo di guerrieri decise di recarsi nel villaggio vicino per interrogare il loro uomo della medicina il quale rivelò loro dello spirito che si era impossessato del loro capo.
Tornarono diversi mesi dopo al villaggio e trovarono la compagna del capo gravida e molto malata, morì infatti dato alla luce il bambino.
Jumlin appreso del piano per distruggerlo fuggì con il figlio ed altri bambini del villaggio.
Per parecchio tempo egli venne inseguito dai guerrieri che dopo molti anni lo ritrovarono e riuscirono ad ucciderlo ma il figlio riuscì a fuggire.
Orso Che Ride, questo era il nome del figlio di Jumlin ed i suoi fratelli e sorelle si dice siano ancora in vita; che procreino con gli esseri umani o con quelli della propria specie per creare la prima razza dei propri "Genetici" o "Ereditari".
Possiedono poteri psichici, vivono in eterno, ed hanno una natura negativa.
Questo è ciò che è narrato dai miti dei Nativi Americani
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14 Anni 11 Mesi fa #3829
da LaDea
Risposta da LaDea al topic Re:Miti e Leggende
Una leggenda islandese cristiana dice che un giorno Dio andò a trovare Adamo ed Eva. Essi gli fecero visitare la casa e gli presentarono i loro figli, bambini ben ordinati e puliti che fecero a Dio una buona impressione. Egli chiese se ce ne fossero altri, ma Eva rispose di no. In verità, c’erano altri bambini, ma la madre non aveva fatto in tempo a lavarli e cambiarli. Vergognandosi del loro stato, li nascose e mentì a Dio, dicendo che non ce ne erano altri. Ma Dio sapeva, e disse: “Ciò che è stato nascosto a me, nessun uomo possa vedere”. Fu così che i bimbi nascosti divennero invisibili agli umani: il Popolo Fatato. Alcuni erano di indole buona e divennero esseri della luce; ancora oggi vivono sulla terra, si vestono di bianco o di colori vivaci, spesso di verde con cappucci rossi, si ornano con fiori, sono sapienti e parlano con gli animali. Ballano molto e amano la musica, gli scacchi, la caccia. Altri, di indole cattiva, si trasformarono in creature delle tenebre; ora vivono sotto terra, oppure in caverne, fanno brutti tiri, sono maligni e crudeli, spaventano gli animali e distruggono i raccolti. Tutti sono golosissimi di burro, latte, panna, biscotti, miele, frutta, nocciole e marmellata. E tutti, buoni o cattivi, hanno un piccolo difetto fisico, il marchio che fa ricordare che la loro stessa madre si era vergognata di farli vedere.
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14 Anni 11 Mesi fa #3842
da Consuelo
Risposta da Consuelo al topic Re:Miti e Leggende
L'unguento dell'impiccato
Si riteneva che la peste del 1630 a Milano fosse diffusa prevalentemente dai cosiddetti untori. Costoro erano degli uomini qualunque, i quali venivano indicati dalla voce popolare come complici del demonio, e da lui incaricati di ungere le porte e i muri delle case per spargere il morbo. Gli unguenti pestiferi erano a base di sterco umano, di cenere o carbone, di topi e altre gradevolezze simili. Ma esisteva anche un antidoto alla peste, la cui ricetta fu estorta con la tortura ad un untore, il quale fu poi impiccato. Si prendeva: "cera nuova once tre, olio d'oliva once due; olio di Hellera, olio di sasso, foglie di aneto, orbaghe di lauro peste, salvia, rosmarino, once mezza per ciascuno; un poco d'aceto", si faceva bollire tutto riducendolo a una pasta con la quale si ungevano le narici, le tempie, i polsi e le piante dei piedi, dopo aver mangiato cipolle, aglio e bevuto aceto.
Si riteneva che la peste del 1630 a Milano fosse diffusa prevalentemente dai cosiddetti untori. Costoro erano degli uomini qualunque, i quali venivano indicati dalla voce popolare come complici del demonio, e da lui incaricati di ungere le porte e i muri delle case per spargere il morbo. Gli unguenti pestiferi erano a base di sterco umano, di cenere o carbone, di topi e altre gradevolezze simili. Ma esisteva anche un antidoto alla peste, la cui ricetta fu estorta con la tortura ad un untore, il quale fu poi impiccato. Si prendeva: "cera nuova once tre, olio d'oliva once due; olio di Hellera, olio di sasso, foglie di aneto, orbaghe di lauro peste, salvia, rosmarino, once mezza per ciascuno; un poco d'aceto", si faceva bollire tutto riducendolo a una pasta con la quale si ungevano le narici, le tempie, i polsi e le piante dei piedi, dopo aver mangiato cipolle, aglio e bevuto aceto.
- Consuelo
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14 Anni 11 Mesi fa #3931
da Consuelo
Risposta da Consuelo al topic Re:Miti e Leggende
E' proprio vero che le donne ne sanno una più del diavolo?
C'era una volta in Albosaggia una famiglia molto povera. L'unica sua ricchezza erano i numerosi bambini che nonostante la grande povertà, crescevano buoni e sani. I genitori erano tristi e molto preoccupati perché non possedevano un soldo e non sapevano come sfamare i loro figli. Un giorno, più nero degli altri, si presentò loro all'improvviso uno sconosciuto e fece questa proposta: "Se mi date uno dei vostri bambini, io vi darò tante monete d'oro e vi farò diventare ricchi. Se accettate la mia proposta lo scambiò avverrà l'indomani". Dette queste parole sparì. I genitori rimasero turbati, avevano molto bisogno di soldi, ma erano molto affezionati ai loro bambini e non intendevano rinunciare a nessuno. Poco dopo sopraggiunse la nonna, una vecchia su con gli anni, molto saggia. Vedendoli sconvolti si informò dell'accaduto. Subito capì che lo sconosciuto altri non era che il diavolo. La nonna li tranquillizzò, dicendo che lei stessa l'indomani avrebbe trovato la giusta soluzione. Il giorno dopo puntualmente com'era nei patti, il diavolo si presentò. La nonna sicura del fatto suo fece al diavolo questa proposta: "Ti darò il bambino solo a patto che tu sappia rendere bianca questa lana nera". Subito il diavolo si mise al lavoro, lavorò a lungo, tentò in mille modi e con mille mezzi, ma niente. Tutto fu inutile. Infine deluso, si mise la coda tra le gambe e prima di sparire disse: "E' proprio vero che le donne ne sanno una più del diavolo".
C'era una volta in Albosaggia una famiglia molto povera. L'unica sua ricchezza erano i numerosi bambini che nonostante la grande povertà, crescevano buoni e sani. I genitori erano tristi e molto preoccupati perché non possedevano un soldo e non sapevano come sfamare i loro figli. Un giorno, più nero degli altri, si presentò loro all'improvviso uno sconosciuto e fece questa proposta: "Se mi date uno dei vostri bambini, io vi darò tante monete d'oro e vi farò diventare ricchi. Se accettate la mia proposta lo scambiò avverrà l'indomani". Dette queste parole sparì. I genitori rimasero turbati, avevano molto bisogno di soldi, ma erano molto affezionati ai loro bambini e non intendevano rinunciare a nessuno. Poco dopo sopraggiunse la nonna, una vecchia su con gli anni, molto saggia. Vedendoli sconvolti si informò dell'accaduto. Subito capì che lo sconosciuto altri non era che il diavolo. La nonna li tranquillizzò, dicendo che lei stessa l'indomani avrebbe trovato la giusta soluzione. Il giorno dopo puntualmente com'era nei patti, il diavolo si presentò. La nonna sicura del fatto suo fece al diavolo questa proposta: "Ti darò il bambino solo a patto che tu sappia rendere bianca questa lana nera". Subito il diavolo si mise al lavoro, lavorò a lungo, tentò in mille modi e con mille mezzi, ma niente. Tutto fu inutile. Infine deluso, si mise la coda tra le gambe e prima di sparire disse: "E' proprio vero che le donne ne sanno una più del diavolo".
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