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Miti e Leggende
- Consuelo
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14 Anni 10 Mesi fa #4250
da Consuelo
Risposta da Consuelo al topic Re:Miti e Leggende
Il Folletto Piripicchio
Si racconta che un tempo nei boschi che attorniano Albosaggia succedevano fatti strani e terribili. Allo scoccare della mezzanotte, piccoli folletti abitatori dei boschi uscivano allo scoperto ed iniziavano a ballare, danzare e cantare allegramente, facendosi mille scherzetti e divertendosi da matti. Conoscevano canti e danze bellissime, la polka francese era la loro preferita. Intanto in un'altra parte dei bosco, buia e tenebrosa, in una caverna spaventosa, streghe, maghi e stregoni mescolavano e rimescolavano in un pentolone ali di pipistrello, occhi di salamandra, code di rospo, denti di coccodrillo e veleno di vipera. Mentre il pentolone bolliva i malvagi danzavano un ballo sgangherato tra urla, sberleffi e sghignazzi. Di tanto in tanto, a turno rimescolavano quella putrida brodaglia. Intanto nella sua casa, ai margini del paese, un vecchio soprannominato "De Tacagnis", a causa della sua proverbiale avarizia, contava e ricontava il suo gruzzolo che comprendeva anche un meraviglioso anello, con un grosso diamante, dotato di magici poteri. Chi lo possedeva poteva diventare molto ricco, e ridurre in suo potere tutti coloro che incontrava. Per fortuna però "De Tacagnis" non conosceva i poteri dell'anello. Proprio nell'istante in cui ammirava il suo tesoro, Belzebù, il perfido capo delle streghe, attraversava al galoppo col suo nero cavallo, il ponte dell'Ad- da per recarsi nella caverna dove i suoi degni compari lo stavano aspettando, per offrirgli quell'intruglio squisito! Arrivato nell'antro così lo acclamarono: "Tu sei il nostro capo Belzebù, tu sei il nostro capo Belzebù!! Per le corna di Belzebù, salute a te Belzebù!!! Urrà, urrà, urrà!!!" Tutt'intorno sui rami degli alberi gli allegri folletti li spiavano pronti ad intervenire. Nei gruppo dei malvagi c'era anche la strega più brutta e terribile che fosse mai esistita, la Magada. Aveva in mente un piano, lo confidò ai suoi perfidi amici. Ruberò l'anello a De Tacagnis e poi ne vedremo delle belle!!!! Ah!! Ah!!! Ah!!!! I suoi degni compari non esitarono ad incoraggiarla. I folletti, però, sentendo il terribile piano, complottarono tra loro per farlo fallire. Mentre la Magada, resasi invisibile, stava rubando l'anello al vecchio, il giovane folletto Piripicchio vi soffiò sopra, in modo che, fatta la magia l'incantesimo fallisse. E le cose andarono proprio così. Infatti una sera mentre due giovani fidanzati stavano tornando dall'alpeggio di San Salvatore, arrivati a "Cà di Pesc" si sedettero su un masso per riposare. In quell'istante si fece loro incontro una vecchina dall'aspetto molto gentile e mostrò alla giovane un anello meraviglioso. "Ti piace, lo vuoi?" "La ragazza fece cenno di sì. "In cambio mi darai i tuoi magnifici capelli biondi!!" "Mai". E la giovane si nascose dietro il fidanzato. "E tu, bel giovane, mi regaleresti i tuoi begli occhi color del cielo?" "Mai". Allora la vecchia arrabbiatissima, riprese le sue vere sembianze di Magada, e puntò l'anello magico contro i due giovani trasformandoli in due rigogliosi pini. Poi si allontanò sghignazzando, soddisfatta. Proprio in quell'istante però, apparvero i folletti che danzarono e cantarono attorno ai pini, facendo volare nell'aria una polvere magica, dai mille colori che liberò i due giovani dal terribile incantesimo. Riprese le loro reali sembianze, i due ragazzi si avviarono verso Albosaggia, si sentivano piuttosto indolenziti, ma per loro fortuna non seppero mai a quale orribile destino erano scampati. I folletti danzarono allegramente per tutta la notte. Anche i maghi, le streghe e Belzebù fecero una danza:"La danza degli arrabbiati". A notte fonda ciascuno tornò nella propria spelonca con le pive nel sacco. La strega si tenne l'anello, non sapendo che ogni volta che avesse tentato qualche malvagità, i folletti avrebbero annullato ogni suo potere.
Si racconta che un tempo nei boschi che attorniano Albosaggia succedevano fatti strani e terribili. Allo scoccare della mezzanotte, piccoli folletti abitatori dei boschi uscivano allo scoperto ed iniziavano a ballare, danzare e cantare allegramente, facendosi mille scherzetti e divertendosi da matti. Conoscevano canti e danze bellissime, la polka francese era la loro preferita. Intanto in un'altra parte dei bosco, buia e tenebrosa, in una caverna spaventosa, streghe, maghi e stregoni mescolavano e rimescolavano in un pentolone ali di pipistrello, occhi di salamandra, code di rospo, denti di coccodrillo e veleno di vipera. Mentre il pentolone bolliva i malvagi danzavano un ballo sgangherato tra urla, sberleffi e sghignazzi. Di tanto in tanto, a turno rimescolavano quella putrida brodaglia. Intanto nella sua casa, ai margini del paese, un vecchio soprannominato "De Tacagnis", a causa della sua proverbiale avarizia, contava e ricontava il suo gruzzolo che comprendeva anche un meraviglioso anello, con un grosso diamante, dotato di magici poteri. Chi lo possedeva poteva diventare molto ricco, e ridurre in suo potere tutti coloro che incontrava. Per fortuna però "De Tacagnis" non conosceva i poteri dell'anello. Proprio nell'istante in cui ammirava il suo tesoro, Belzebù, il perfido capo delle streghe, attraversava al galoppo col suo nero cavallo, il ponte dell'Ad- da per recarsi nella caverna dove i suoi degni compari lo stavano aspettando, per offrirgli quell'intruglio squisito! Arrivato nell'antro così lo acclamarono: "Tu sei il nostro capo Belzebù, tu sei il nostro capo Belzebù!! Per le corna di Belzebù, salute a te Belzebù!!! Urrà, urrà, urrà!!!" Tutt'intorno sui rami degli alberi gli allegri folletti li spiavano pronti ad intervenire. Nei gruppo dei malvagi c'era anche la strega più brutta e terribile che fosse mai esistita, la Magada. Aveva in mente un piano, lo confidò ai suoi perfidi amici. Ruberò l'anello a De Tacagnis e poi ne vedremo delle belle!!!! Ah!! Ah!!! Ah!!!! I suoi degni compari non esitarono ad incoraggiarla. I folletti, però, sentendo il terribile piano, complottarono tra loro per farlo fallire. Mentre la Magada, resasi invisibile, stava rubando l'anello al vecchio, il giovane folletto Piripicchio vi soffiò sopra, in modo che, fatta la magia l'incantesimo fallisse. E le cose andarono proprio così. Infatti una sera mentre due giovani fidanzati stavano tornando dall'alpeggio di San Salvatore, arrivati a "Cà di Pesc" si sedettero su un masso per riposare. In quell'istante si fece loro incontro una vecchina dall'aspetto molto gentile e mostrò alla giovane un anello meraviglioso. "Ti piace, lo vuoi?" "La ragazza fece cenno di sì. "In cambio mi darai i tuoi magnifici capelli biondi!!" "Mai". E la giovane si nascose dietro il fidanzato. "E tu, bel giovane, mi regaleresti i tuoi begli occhi color del cielo?" "Mai". Allora la vecchia arrabbiatissima, riprese le sue vere sembianze di Magada, e puntò l'anello magico contro i due giovani trasformandoli in due rigogliosi pini. Poi si allontanò sghignazzando, soddisfatta. Proprio in quell'istante però, apparvero i folletti che danzarono e cantarono attorno ai pini, facendo volare nell'aria una polvere magica, dai mille colori che liberò i due giovani dal terribile incantesimo. Riprese le loro reali sembianze, i due ragazzi si avviarono verso Albosaggia, si sentivano piuttosto indolenziti, ma per loro fortuna non seppero mai a quale orribile destino erano scampati. I folletti danzarono allegramente per tutta la notte. Anche i maghi, le streghe e Belzebù fecero una danza:"La danza degli arrabbiati". A notte fonda ciascuno tornò nella propria spelonca con le pive nel sacco. La strega si tenne l'anello, non sapendo che ogni volta che avesse tentato qualche malvagità, i folletti avrebbero annullato ogni suo potere.
14 Anni 10 Mesi fa #4295
da perla84
Risposta da perla84 al topic Re:Miti e Leggende
Psiche, figlia di un re della Grecia era tanto bella che tutti la
veneravano come una dea. Venere, gelosa, chiese al figlio Cupido di
far innamorare la giovane mortale di un uomo povero e deforme.
Psiche non era ancora sposata perche nessuno osava chiederle la
mano. I genitori si rivolsero ad Apollo che impose loro di mandare la
ragazza su una rupe e di farle sposare un mostro. Questa ando' e
venne trasportata dal vento lontano in una magica reggia. Li' ogni
notte riceveva la visita di una persona invisibile che la confortava.
Dopo un po' di tempo incontro le sorelle che, vedendola ricca e felice,
per gelosia la convinsero ad uccidere il marito poiche', dicevano loro,
era un mostro. La ragazza si procuro una lampada e un coltello e una
notte guardo il suo compagno: era il bellissimo Cupido che aveva
disubbidito alla madre perche si era innamorato di lei. L'olio bollente
della lampada cadde sulla sua spalla e lo feri'. Cupido si sveglio' e
scappo' via dopo aver predetto sofferenze a lei e alle sorelle. Psiche,
alla ricerca del marito, arrivo' nel paese dove abitavano le sorelle.
Queste andarono sulla rupe sperando di trovare Cupido, ma
precipitarono e morirono. Psiche chiese aiuto a Cerere e a
Giunone, ma rifiutarono perche erano parenti di Venere. Ando' allora
direttamente da Venere che la sottomise a diverse prove che supero
grazie all'aiuto di formiche, di un fiume e di un'aquila. L'ultima
prova consisteva nel chiedere a Proserpina, nel regno dei morti, la
bellezza divina. Psiche riusci nell'impresa, ma quando torno' con una
scatola, l'apri'; dentro c'era Sonno che la fece addormentare. Il suo
sposo Cupido corse in suo aiuto, rinchiuse Sonno nella scatola e la
condusse da Giove al quale chiese di renderla immortale. Giove
acconsenti', chiamo' tutti gli dei e celebro' il matrimonio tra Cupido e
Psiche.
veneravano come una dea. Venere, gelosa, chiese al figlio Cupido di
far innamorare la giovane mortale di un uomo povero e deforme.
Psiche non era ancora sposata perche nessuno osava chiederle la
mano. I genitori si rivolsero ad Apollo che impose loro di mandare la
ragazza su una rupe e di farle sposare un mostro. Questa ando' e
venne trasportata dal vento lontano in una magica reggia. Li' ogni
notte riceveva la visita di una persona invisibile che la confortava.
Dopo un po' di tempo incontro le sorelle che, vedendola ricca e felice,
per gelosia la convinsero ad uccidere il marito poiche', dicevano loro,
era un mostro. La ragazza si procuro una lampada e un coltello e una
notte guardo il suo compagno: era il bellissimo Cupido che aveva
disubbidito alla madre perche si era innamorato di lei. L'olio bollente
della lampada cadde sulla sua spalla e lo feri'. Cupido si sveglio' e
scappo' via dopo aver predetto sofferenze a lei e alle sorelle. Psiche,
alla ricerca del marito, arrivo' nel paese dove abitavano le sorelle.
Queste andarono sulla rupe sperando di trovare Cupido, ma
precipitarono e morirono. Psiche chiese aiuto a Cerere e a
Giunone, ma rifiutarono perche erano parenti di Venere. Ando' allora
direttamente da Venere che la sottomise a diverse prove che supero
grazie all'aiuto di formiche, di un fiume e di un'aquila. L'ultima
prova consisteva nel chiedere a Proserpina, nel regno dei morti, la
bellezza divina. Psiche riusci nell'impresa, ma quando torno' con una
scatola, l'apri'; dentro c'era Sonno che la fece addormentare. Il suo
sposo Cupido corse in suo aiuto, rinchiuse Sonno nella scatola e la
condusse da Giove al quale chiese di renderla immortale. Giove
acconsenti', chiamo' tutti gli dei e celebro' il matrimonio tra Cupido e
Psiche.
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14 Anni 8 Mesi fa #5650
da LaDea
Risposta da LaDea al topic Re:Miti e Leggende
L’AMORE ETERNO
Gia’ da un’epoca ormai remota, il sole e la luna dominavano il giorno e la notte, cosi’ come tutti sanno.
Quello che pero’ molti non sanno e’ che i due astri, fin dal giorno in cui sono nati, si amavano follemente.
La natura, come spesso fa, aveva un po’ giocato e li aveva creati re e regina di due mondi diversi e separati, che mai avrebbero potuto coesistere.
Eppure anche dopo secoli, durante i quali non erano mai riusciti a stare insieme, il sole e la luna sapevano di amarsi ancora. Quante volte lui sorgendo aveva avuto la prova di mancarle, vedendo le sue lacrime su foglie e piante e lei comparendo nel cielo della sera, ancora pallida e trasparente, quante volte aveva visto lui tramontare arrossendo nel vederla arrivare.
Il dolore di non poter stare insieme, divento’ un giorno troppo forte e i due astri decisero che l’unico modo era incontrarsi sulla terra. Allora divennero una bellissima ragazza e uno splendido giovane e cominciarono a cercarsi.
Lui emanava allegria, era il classico tipo “solare” e tutti, quando lo incontravano, diventavano di buon umore e lui ne era felice. Pero’ si rese conto di riuscire a dare solo quello e la vita invece era fatta anche di altre emozioni, cosi’ la sua anima era per meta’ vuota.
Lei era perennemente malinconica e tutti si intenerivano e si affezionavano a lei, per la sua dolcezza. Purtroppo in lei non c’era neanche un minimo di allegria e la sua anima, per meta’ colma di struggevole tristezza, era per l’altra meta’ vuota.
Un giorno si incontrarono per caso e fu subito amore, un amore che avrebbe potuto essere eterno e lo era.
Troppi erano pero’ gli impegni di entrambi verso l’umanita’ ed effettivamente senza di loro la terra sarebbe andata a rotoli .Tornarono quindi in cielo, ma continuarono ad amarsi.
Lui continuo’ a riscaldarla durante le fredde notti con la sua luce e lei continuo’ a piangere rugiada per lui e, raramente, in quelle che tu chiami eclissi, si incontrano e si accarezzano, diventando, anche se solo per pochi istanti, una cosa sola.
Gia’ da un’epoca ormai remota, il sole e la luna dominavano il giorno e la notte, cosi’ come tutti sanno.
Quello che pero’ molti non sanno e’ che i due astri, fin dal giorno in cui sono nati, si amavano follemente.
La natura, come spesso fa, aveva un po’ giocato e li aveva creati re e regina di due mondi diversi e separati, che mai avrebbero potuto coesistere.
Eppure anche dopo secoli, durante i quali non erano mai riusciti a stare insieme, il sole e la luna sapevano di amarsi ancora. Quante volte lui sorgendo aveva avuto la prova di mancarle, vedendo le sue lacrime su foglie e piante e lei comparendo nel cielo della sera, ancora pallida e trasparente, quante volte aveva visto lui tramontare arrossendo nel vederla arrivare.
Il dolore di non poter stare insieme, divento’ un giorno troppo forte e i due astri decisero che l’unico modo era incontrarsi sulla terra. Allora divennero una bellissima ragazza e uno splendido giovane e cominciarono a cercarsi.
Lui emanava allegria, era il classico tipo “solare” e tutti, quando lo incontravano, diventavano di buon umore e lui ne era felice. Pero’ si rese conto di riuscire a dare solo quello e la vita invece era fatta anche di altre emozioni, cosi’ la sua anima era per meta’ vuota.
Lei era perennemente malinconica e tutti si intenerivano e si affezionavano a lei, per la sua dolcezza. Purtroppo in lei non c’era neanche un minimo di allegria e la sua anima, per meta’ colma di struggevole tristezza, era per l’altra meta’ vuota.
Un giorno si incontrarono per caso e fu subito amore, un amore che avrebbe potuto essere eterno e lo era.
Troppi erano pero’ gli impegni di entrambi verso l’umanita’ ed effettivamente senza di loro la terra sarebbe andata a rotoli .Tornarono quindi in cielo, ma continuarono ad amarsi.
Lui continuo’ a riscaldarla durante le fredde notti con la sua luce e lei continuo’ a piangere rugiada per lui e, raramente, in quelle che tu chiami eclissi, si incontrano e si accarezzano, diventando, anche se solo per pochi istanti, una cosa sola.
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14 Anni 8 Mesi fa #5668
da Consuelo
Risposta da Consuelo al topic Re:Miti e Leggende
Gli amanti divisi
Tentei, il re delle stelle, aveva una figlia bellissima il cui nome era Orihime. La principessa Orihime era molto abile nel tessere al telaio e sapeva fare i vestiti più belli. Suo padre era molto orgoglioso di lei, ma la impegnò così tanto nel lavoro di tessitura che non le restava mai il tempo per fare nient'altro. Orihime aveva il cuore gonfio di tristezza, perché pensava che non avrebbe mai incontrato nessuno di cui innamorarsi. Finalmente suo padre ebbe pietà di lei e le scelse un marito.
Kengyu era un vaccaro che viveva al di là del fiume. Orihime e Kengyu si sposarono e la loro felicità era cosi perfetta che Orihime lasciò che sul suo telaio si depositasse la polvere e smise di fare i suoi bellissimi vestiti. Tentei era arrabbiato. Pensava che Orihime volesse abbandonare il suo lavoro. Decise allora di separare i due innamorati e fece in modo che vivessero su opposte sponde del grande fiume. C'è da dire, però, che questo non era un fiume qualsiasi, infatti scorreva lungo il reame delle stelle. Era la Via Lattea. Orihime e Kengyu non avevano modo di attraversarla. Orihime aveva una tale nostalgia di Kengyu che pianse finché le sue lacrime corsero giù, fin sull'abito che stava tessendo.«Macchierai il vestito!» disse Tentei. «E sia. Se tuo marito ti manca tanto, potrai vederlo una volta l'anno.» Così il re delle stelle combinò che una volta l'anno, nel settimo giorno del settimo mese, il barcaiolo della luna traghettasse Orihime attraverso il fiume per far visita a Kengyu.
Ma se la principessa non fa bene il suo lavoro, Tentei fa piovere così tanto da provocare la piena del fiume, e allora il barcaiolo non arriva. Quando questo avviene, tutte le gazze del Giappone volano verso il fiume e formano un ponte, così che Orihime cammina leggera sui loro dorsi piumati per raggiungere l'amato Kengyu. E Tentei non può farci nulla.
Tentei, il re delle stelle, aveva una figlia bellissima il cui nome era Orihime. La principessa Orihime era molto abile nel tessere al telaio e sapeva fare i vestiti più belli. Suo padre era molto orgoglioso di lei, ma la impegnò così tanto nel lavoro di tessitura che non le restava mai il tempo per fare nient'altro. Orihime aveva il cuore gonfio di tristezza, perché pensava che non avrebbe mai incontrato nessuno di cui innamorarsi. Finalmente suo padre ebbe pietà di lei e le scelse un marito.
Kengyu era un vaccaro che viveva al di là del fiume. Orihime e Kengyu si sposarono e la loro felicità era cosi perfetta che Orihime lasciò che sul suo telaio si depositasse la polvere e smise di fare i suoi bellissimi vestiti. Tentei era arrabbiato. Pensava che Orihime volesse abbandonare il suo lavoro. Decise allora di separare i due innamorati e fece in modo che vivessero su opposte sponde del grande fiume. C'è da dire, però, che questo non era un fiume qualsiasi, infatti scorreva lungo il reame delle stelle. Era la Via Lattea. Orihime e Kengyu non avevano modo di attraversarla. Orihime aveva una tale nostalgia di Kengyu che pianse finché le sue lacrime corsero giù, fin sull'abito che stava tessendo.«Macchierai il vestito!» disse Tentei. «E sia. Se tuo marito ti manca tanto, potrai vederlo una volta l'anno.» Così il re delle stelle combinò che una volta l'anno, nel settimo giorno del settimo mese, il barcaiolo della luna traghettasse Orihime attraverso il fiume per far visita a Kengyu.
Ma se la principessa non fa bene il suo lavoro, Tentei fa piovere così tanto da provocare la piena del fiume, e allora il barcaiolo non arriva. Quando questo avviene, tutte le gazze del Giappone volano verso il fiume e formano un ponte, così che Orihime cammina leggera sui loro dorsi piumati per raggiungere l'amato Kengyu. E Tentei non può farci nulla.
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14 Anni 8 Mesi fa #5714
da LaDea
Risposta da LaDea al topic Re:Miti e Leggende
Una viola al Polo Nord
Una mattina, al Polo Nord, l'orso bianco fiutò nell'aria un odore insolito e lo fece notare all'orsa maggiore (la minore era sua figlia):
- Che sia arrivata qualche spedizione?
Furono invece gli orsacchiotti a trovare la viola. Era una piccola violetta mammola e tremava di freddo, ma continuava coraggiosamente a profumare l'aria, perché quello era il suo dovere.
- Mamma, papà, - gridarono gli orsacchiotti.
- Io l'avevo detto subito che c'era qualcosa di strano, - fece osservare per prima cosa l'orso bianco alla famiglia. - E secondo me non è un pesce.
- No di sicuro, - disse l'orsa maggiore, - ma non è nemmeno un uccello.
- Hai ragione anche tu, - disse l'orso, dopo averci pensato su un bel pezzo.
Prima di sera si sparse per tutto il Polo la notizia: un piccolo, strano essere profumato, di colore violetto, era apparso nel deserto di ghiaccio, si reggeva su una sola zampa e non si muoveva. A vedere la viola vennero foche e trichechi, vennero dalla Siberia le renne, dall'America i buoi muschiati, e più di lontano ancora volpi bianche, lupi e gazze marine. Tutti ammiravano il fiore sconosciuto, il suo stelo tremante, tutti aspiravano il suo profumo, ma ne restava sempre abbastanza per quelli che arrivavano ultimi ad annusare, ne restava sempre come prima.
- Per mandare tanto profumo, - disse una foca, - deve avere una riserva sotto il ghiaccio.
- Io l'avevo detto subito, - esclamò l'orso bianco, - che c'era sotto qualcosa.
Non aveva detto proprio così, ma nessuno se ne ricordava.
Un gabbiano, spedito al Sud per raccogliere informazioni, tornò con la notizia che il piccolo essere profumato si chiamava viola e che in certi paesi, laggiù, ce n'erano milioni.
- Ne sappiamo quanto prima, - osservò la foca. - Com'è che proprio questa viola è arrivata proprio qui? Vi dirò tutto il mio pensiero: mi sento alquanto perplessa.
- Come ha detto che si sente? - domandò l'orso bianco a sua moglie.
- Perplessa. Cioè, non sa che pesci pigliare.
- Ecco, - esclamò l'orso bianco, - proprio quello che penso anch'io.
Quella notte corse per tutto il Polo un pauroso scricchiolio. I ghiacci eterni tremavano come vetri e in più punti si spaccarono. La violetta mandò un profumo più intenso, come se avesse deciso di sciogliere in una sola volta l'immenso deserto gelato, per trasformarlo in un mare azzurro e caldo, o in un prato di velluto verde. Lo sforzo la esaurì. All'alba fu vista appassire, piegarsi sullo stelo, perdere il colore e la vita.
Tradotto nelle nostre parole e nella nostra lingua il suo ultimo pensiero dev'essere stato pressapoco questo:
- Ecco, io muoio... Ma bisognava pure che qualcuno cominciasse... Un giorno le viole giungeranno qui a milioni. I ghiacci si scioglieranno, e qui ci saranno isole, case e bambini.
Una mattina, al Polo Nord, l'orso bianco fiutò nell'aria un odore insolito e lo fece notare all'orsa maggiore (la minore era sua figlia):
- Che sia arrivata qualche spedizione?
Furono invece gli orsacchiotti a trovare la viola. Era una piccola violetta mammola e tremava di freddo, ma continuava coraggiosamente a profumare l'aria, perché quello era il suo dovere.
- Mamma, papà, - gridarono gli orsacchiotti.
- Io l'avevo detto subito che c'era qualcosa di strano, - fece osservare per prima cosa l'orso bianco alla famiglia. - E secondo me non è un pesce.
- No di sicuro, - disse l'orsa maggiore, - ma non è nemmeno un uccello.
- Hai ragione anche tu, - disse l'orso, dopo averci pensato su un bel pezzo.
Prima di sera si sparse per tutto il Polo la notizia: un piccolo, strano essere profumato, di colore violetto, era apparso nel deserto di ghiaccio, si reggeva su una sola zampa e non si muoveva. A vedere la viola vennero foche e trichechi, vennero dalla Siberia le renne, dall'America i buoi muschiati, e più di lontano ancora volpi bianche, lupi e gazze marine. Tutti ammiravano il fiore sconosciuto, il suo stelo tremante, tutti aspiravano il suo profumo, ma ne restava sempre abbastanza per quelli che arrivavano ultimi ad annusare, ne restava sempre come prima.
- Per mandare tanto profumo, - disse una foca, - deve avere una riserva sotto il ghiaccio.
- Io l'avevo detto subito, - esclamò l'orso bianco, - che c'era sotto qualcosa.
Non aveva detto proprio così, ma nessuno se ne ricordava.
Un gabbiano, spedito al Sud per raccogliere informazioni, tornò con la notizia che il piccolo essere profumato si chiamava viola e che in certi paesi, laggiù, ce n'erano milioni.
- Ne sappiamo quanto prima, - osservò la foca. - Com'è che proprio questa viola è arrivata proprio qui? Vi dirò tutto il mio pensiero: mi sento alquanto perplessa.
- Come ha detto che si sente? - domandò l'orso bianco a sua moglie.
- Perplessa. Cioè, non sa che pesci pigliare.
- Ecco, - esclamò l'orso bianco, - proprio quello che penso anch'io.
Quella notte corse per tutto il Polo un pauroso scricchiolio. I ghiacci eterni tremavano come vetri e in più punti si spaccarono. La violetta mandò un profumo più intenso, come se avesse deciso di sciogliere in una sola volta l'immenso deserto gelato, per trasformarlo in un mare azzurro e caldo, o in un prato di velluto verde. Lo sforzo la esaurì. All'alba fu vista appassire, piegarsi sullo stelo, perdere il colore e la vita.
Tradotto nelle nostre parole e nella nostra lingua il suo ultimo pensiero dev'essere stato pressapoco questo:
- Ecco, io muoio... Ma bisognava pure che qualcuno cominciasse... Un giorno le viole giungeranno qui a milioni. I ghiacci si scioglieranno, e qui ci saranno isole, case e bambini.
- Consuelo
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14 Anni 7 Mesi fa #5846
da Consuelo
Risposta da Consuelo al topic Re:Miti e Leggende
Come Nonna Ragno rubò il Sole
Molti, molti anni fa il popolo indiano viveva nelle tenebre. L' oscurità era talmente tanto fitta che la gente continuava a urtarsi e doveva procedere brancolando.«Non si può continuare così» brontolavano molti. «Ci vorrebbe un po' di luce!»Allora Volpe narrò di un Jopolo che viveva dall'altra Jarte del mondo e che aveva tantissima luce, ma la teneva tutta per se. Opossum si offrì di recarsi laggiù e di rubarne un pezzetto: «Ho la coda lunga e folta: arà facile nascondervi la luce». Opossum partì e raggiunse 'altra parte del mondo.
Piano piano, strisciò fino al Sole, prese un po' di luce e la nascose nella coda. La luce era però molto calda, che in un attimo gli bruciò la pelliccia. Opossum lanciò uno strillo, e così il suo furto venne scoperto. La luce fu riportata al suo posto e Opossum cacciato in malo modo. E da allora la sua coda rimase pelata. Falco, visto il fallimento di Opossum, disse: «Tenterò io. Metterò la luce sulla testa e ve la porterò!» Falco partì e raggiunse l'altra parte del mondo. Salì fino al Sole, ne afferrò un raggio e se lo mise sulla testa. Ma il raggio era caldo e gli bruciò le penne. Falco lanciò un grido di dolore: la gente lo scoprì, lo malmenò un pochino, poi lo costrinsero a rimettere il raggio di Sole al suo posto. Così Falco non solo dovette tornare dal popolo Cherokee senza luce, ma da allora il poveretto restò con la testa pelata.
Nonna Ragno disse: «Lasciate provare a me!» Per prima cosa preparò una pentola di creta molto robusta; poi intrecciò un filo di ragnatela tanto lungo da raggiungere l'altra parte del mondo, quindi partì. Piccola com'era, Nonna Ragno arrivò indisturbata fino al Sole, lo prese e l'infilò svelta nella pentola. Prima ancora che la gente si accorgesse del furto, Nonna Ragno si era già arrampicata sul filo della sua ragnatela e stava tornando a casa. Così Nonna Ragno portò il Sole ai Cherokee, che si rallegrarono moltissimo. Poi insegnò loro ad accendere il fuoco, a fabbricare i vasi e a cuocerli.
Molti, molti anni fa il popolo indiano viveva nelle tenebre. L' oscurità era talmente tanto fitta che la gente continuava a urtarsi e doveva procedere brancolando.«Non si può continuare così» brontolavano molti. «Ci vorrebbe un po' di luce!»Allora Volpe narrò di un Jopolo che viveva dall'altra Jarte del mondo e che aveva tantissima luce, ma la teneva tutta per se. Opossum si offrì di recarsi laggiù e di rubarne un pezzetto: «Ho la coda lunga e folta: arà facile nascondervi la luce». Opossum partì e raggiunse 'altra parte del mondo.
Piano piano, strisciò fino al Sole, prese un po' di luce e la nascose nella coda. La luce era però molto calda, che in un attimo gli bruciò la pelliccia. Opossum lanciò uno strillo, e così il suo furto venne scoperto. La luce fu riportata al suo posto e Opossum cacciato in malo modo. E da allora la sua coda rimase pelata. Falco, visto il fallimento di Opossum, disse: «Tenterò io. Metterò la luce sulla testa e ve la porterò!» Falco partì e raggiunse l'altra parte del mondo. Salì fino al Sole, ne afferrò un raggio e se lo mise sulla testa. Ma il raggio era caldo e gli bruciò le penne. Falco lanciò un grido di dolore: la gente lo scoprì, lo malmenò un pochino, poi lo costrinsero a rimettere il raggio di Sole al suo posto. Così Falco non solo dovette tornare dal popolo Cherokee senza luce, ma da allora il poveretto restò con la testa pelata.
Nonna Ragno disse: «Lasciate provare a me!» Per prima cosa preparò una pentola di creta molto robusta; poi intrecciò un filo di ragnatela tanto lungo da raggiungere l'altra parte del mondo, quindi partì. Piccola com'era, Nonna Ragno arrivò indisturbata fino al Sole, lo prese e l'infilò svelta nella pentola. Prima ancora che la gente si accorgesse del furto, Nonna Ragno si era già arrampicata sul filo della sua ragnatela e stava tornando a casa. Così Nonna Ragno portò il Sole ai Cherokee, che si rallegrarono moltissimo. Poi insegnò loro ad accendere il fuoco, a fabbricare i vasi e a cuocerli.
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14 Anni 5 Mesi fa #6431
da LaDea
Risposta da LaDea al topic Re:Miti e Leggende
La leggenda di Sepoy
Una notte un uomo si svegliò in mezzo al deserto, senza sapere quanto aveva camminato né perché.
Era sdraiato sul dorso, con le gambe e le braccia allargate come se fosse in croce. Sentiva le labbra secche e gli pareva che persino la luna, l’immensa luna dei deserti, gli succhiasse ogni umore da quel corpo ormai quasi essiccato. Il freddo gli ridette qualche sprazzo di lucidità. Cercò di mettersi a sedere, gli girava la testa per la stanchezza, ma alla fine ci riuscì. Si guardò intorno cercando di capire com’era finito lì. Lo sguardo spazzò il buio orizzonte alla ricerca di una palma o qualcosa che indicasse un’oasi anche piccola piccola, ma che avesse un pozzo. Nulla: non c’era nulla.
Lentamente come in un lampo si ricordò gli ultimi avvenimenti.
Seduto sul suo scranno al centro della piazza del mercato, immerso nel pulviscolo dorato dell’aria, stava leggendo un libro a quanti si fermavano ad ascoltare. Ashmet era un raccontatore di professione e viveva delle elemosine degli ascoltatori.
Si accontentava di poco e a volte se era fortunato qualche anziano lo invitava a casa sua per mangiare insieme, bere il tè o recitare le preghiere della sera.
Gli piaceva il lavoro che si era scelto, faticava poco, gli piaceva leggere e soprattutto adorava lo sguardo delle ragazze che si fermavano sotto il tetto di paglia per ascoltarlo. I volti erano celati dal velo, ma proprio per questo lui poteva immaginare bellezze meravigliose solamente spiandone gli sguardi.
Il libro che stava leggendo, preferendolo agli altri tre che portava con sè da un paese all’altro, parlava di leggende. La sua voce s’inanellava, s’inerpicava, scendeva in veloci curve buie dando corpo alle immagine della storia. Gesti mai uguali rendevano vive le sue interpretazioni e se si accorgeva che il pubblico era senza fiato per il piacere dell’ascolto, accentuava la sua abilità narrativa per strappare maggiori applausi e soddisfazioni. Sembrava che con i gesti dipingesse l’aria.
Quel giorno aveva scelto di leggere la storia dell’Uccello Sepoy, che a lui piaceva tanto.
Si narrava di un uccello magico, che donava il potere a chi fosse stato capace di catturare la sua ombra mentre volava alto nei cieli il primo giorno di primavera; quello era appunto il primo giorno di primavera.
Di Sepoy si diceva che avesse ali blu grandi come una nuvola e il collo lungo e aggraziato che si muoveva durante il volo come in una danza, ricoperto di un piumaggio d’oro, luminoso come sole a mezzodì.
Il corpo invece era rosso fuoco, simile alle rose di Bagdad nel giardino del Califfo. La leggenda raccontava che al suo passaggio i fiori stessi rimanessero attoniti a vedere tanta bellezza e a volte si mettessero a cantare.
A questo punto di solito Ashmet intonava una nenia dolcissima che incantava il pubblico e alla fine si scusava per avere osato imitare il canto del leggendario uccello, la sua modestia piaceva e attirava simpatie.
Quel giorno non cantò.
Improvviso alto nel cielo era apparso Sepoy.
Volava in cerchio lentamente e imponente come una passione folle, sfidando quegli uomini a catturare la sua ombra; sembrava persino che sorridesse con cattiveria perché sapeva di essere “la tentazione”, a cui forse sarebbe seguita la condanna.
Gli spettatori rimasero immobili come per magia, ad una persona sola era consentito raccogliere la sfida, la prima che si fosse mossa.
Ashmet era allibito, mai avrebbe pensato che la storia fosse vera, ma se quella era la sua unica possibilità di diventare potente come il Visir, non se la sarebbe lasciata scappare.
Improvvisamente si vide com’era: un poveraccio che appena sopravviveva alla fame. Vide la sua tunica di lana grezza strappata, il suo letto vuoto d’affetti, la vecchiaia che gli sorrideva seduta su una lapide e nessun figlio maschio che piangesse sulla sua tomba.
Desiderò ciò che non aveva mai desiderato: sete e broccati che scivolassero sul suo corpo reso morbido dagli unguenti, calici d’oro colmi di spezie esotiche, una donna bianca come un fiore di loto e flessuosa come un giunco al suo fianco, meglio due, profumate con oli preziosi.
Desiderò una vita diversa e tanti figli che tramandassero e onorassero il suo nome.
Gettò a terra il libro e si mise ad inseguire l’ombra.
Corse tutto il giorno, attraversò dune di sabbia infuocata, scavalcò uadi secchi, calpestò impronte di serpenti, affondò gli occhi nel sole mentre uno scorpione lo guardava stupito.
Ora era in mezzo al deserto, solo e immobile nel silenzio della notte, ombra nell’ombra, ancora vivo per il tempo di un sospiro, ma senza rimpianti: almeno una volta aveva osato sognare.
Contemplando l’infinito, capì che nessuna felicità o morte ha un nome vero.
Una notte un uomo si svegliò in mezzo al deserto, senza sapere quanto aveva camminato né perché.
Era sdraiato sul dorso, con le gambe e le braccia allargate come se fosse in croce. Sentiva le labbra secche e gli pareva che persino la luna, l’immensa luna dei deserti, gli succhiasse ogni umore da quel corpo ormai quasi essiccato. Il freddo gli ridette qualche sprazzo di lucidità. Cercò di mettersi a sedere, gli girava la testa per la stanchezza, ma alla fine ci riuscì. Si guardò intorno cercando di capire com’era finito lì. Lo sguardo spazzò il buio orizzonte alla ricerca di una palma o qualcosa che indicasse un’oasi anche piccola piccola, ma che avesse un pozzo. Nulla: non c’era nulla.
Lentamente come in un lampo si ricordò gli ultimi avvenimenti.
Seduto sul suo scranno al centro della piazza del mercato, immerso nel pulviscolo dorato dell’aria, stava leggendo un libro a quanti si fermavano ad ascoltare. Ashmet era un raccontatore di professione e viveva delle elemosine degli ascoltatori.
Si accontentava di poco e a volte se era fortunato qualche anziano lo invitava a casa sua per mangiare insieme, bere il tè o recitare le preghiere della sera.
Gli piaceva il lavoro che si era scelto, faticava poco, gli piaceva leggere e soprattutto adorava lo sguardo delle ragazze che si fermavano sotto il tetto di paglia per ascoltarlo. I volti erano celati dal velo, ma proprio per questo lui poteva immaginare bellezze meravigliose solamente spiandone gli sguardi.
Il libro che stava leggendo, preferendolo agli altri tre che portava con sè da un paese all’altro, parlava di leggende. La sua voce s’inanellava, s’inerpicava, scendeva in veloci curve buie dando corpo alle immagine della storia. Gesti mai uguali rendevano vive le sue interpretazioni e se si accorgeva che il pubblico era senza fiato per il piacere dell’ascolto, accentuava la sua abilità narrativa per strappare maggiori applausi e soddisfazioni. Sembrava che con i gesti dipingesse l’aria.
Quel giorno aveva scelto di leggere la storia dell’Uccello Sepoy, che a lui piaceva tanto.
Si narrava di un uccello magico, che donava il potere a chi fosse stato capace di catturare la sua ombra mentre volava alto nei cieli il primo giorno di primavera; quello era appunto il primo giorno di primavera.
Di Sepoy si diceva che avesse ali blu grandi come una nuvola e il collo lungo e aggraziato che si muoveva durante il volo come in una danza, ricoperto di un piumaggio d’oro, luminoso come sole a mezzodì.
Il corpo invece era rosso fuoco, simile alle rose di Bagdad nel giardino del Califfo. La leggenda raccontava che al suo passaggio i fiori stessi rimanessero attoniti a vedere tanta bellezza e a volte si mettessero a cantare.
A questo punto di solito Ashmet intonava una nenia dolcissima che incantava il pubblico e alla fine si scusava per avere osato imitare il canto del leggendario uccello, la sua modestia piaceva e attirava simpatie.
Quel giorno non cantò.
Improvviso alto nel cielo era apparso Sepoy.
Volava in cerchio lentamente e imponente come una passione folle, sfidando quegli uomini a catturare la sua ombra; sembrava persino che sorridesse con cattiveria perché sapeva di essere “la tentazione”, a cui forse sarebbe seguita la condanna.
Gli spettatori rimasero immobili come per magia, ad una persona sola era consentito raccogliere la sfida, la prima che si fosse mossa.
Ashmet era allibito, mai avrebbe pensato che la storia fosse vera, ma se quella era la sua unica possibilità di diventare potente come il Visir, non se la sarebbe lasciata scappare.
Improvvisamente si vide com’era: un poveraccio che appena sopravviveva alla fame. Vide la sua tunica di lana grezza strappata, il suo letto vuoto d’affetti, la vecchiaia che gli sorrideva seduta su una lapide e nessun figlio maschio che piangesse sulla sua tomba.
Desiderò ciò che non aveva mai desiderato: sete e broccati che scivolassero sul suo corpo reso morbido dagli unguenti, calici d’oro colmi di spezie esotiche, una donna bianca come un fiore di loto e flessuosa come un giunco al suo fianco, meglio due, profumate con oli preziosi.
Desiderò una vita diversa e tanti figli che tramandassero e onorassero il suo nome.
Gettò a terra il libro e si mise ad inseguire l’ombra.
Corse tutto il giorno, attraversò dune di sabbia infuocata, scavalcò uadi secchi, calpestò impronte di serpenti, affondò gli occhi nel sole mentre uno scorpione lo guardava stupito.
Ora era in mezzo al deserto, solo e immobile nel silenzio della notte, ombra nell’ombra, ancora vivo per il tempo di un sospiro, ma senza rimpianti: almeno una volta aveva osato sognare.
Contemplando l’infinito, capì che nessuna felicità o morte ha un nome vero.
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