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Racconti
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14 Anni 9 Mesi fa #5715
da LaDea
Risposta da LaDea al topic Re:Racconti
Il Re in ascolto
Lo scettro va tenuto con la destra, diritto, guai se lo metti giù, e del resto non avresti dove posarlo, accanto al trono non ci sono tavolini o mensole o trespoli dove tenere, che so, un bicchiere, un posacenere un telefono; il trono è isolato, alto su gradini stretti e ripidi, tutto quello che fai cascare rotola e non si trova più.
Guai se lo scettro ti sfugge di mano, dovresti alzarti, scendere dal trono per raccoglierlo, nessuno lo può toccare tranne il re ; e non è bello che un re si allunghi al suolo, per raggiungere lo scettro finito sotto un mobile, o la corona, che è facile ti rotoli via dalla testa, se ti chini.
L'avambraccio puoi tenerlo appoggiato al bracciolo, così non si stanca: parlo sempre della destra che impugna lo scettro; quanto alla sinistra resta libera; puoi grattarti se vuoi; alle volte il manto di ermellino trasmette un prurito al collo che si propaga giù per la schiena, per tutto il corpo.
Anche il velluto del cuscino, scaldandosi, provoca una sensazione irritante alle natiche, alle cosce.
Non farti scrupolo di cacciare le dita dove ti prude, di slacciare il cinturone con la fibbia dorata, di scostare il collare, le medaglie, le spalline con le frange.
Sei Re, nessuno può trovarci da ridire, ci mancherebbe anche questa.
La testa devi tenerla immobile, non dimenticarti che la corona sta in bilico sul tuo cocuzzolo, non la puoi calzare sugli orecchi come un berretto in un giorno di vento; la corona culmina in una cupola più voluminosa della base che la regge, il che vuol dire che ha un equilibrio instabile: se ti capita d'appisolarti, di adagiare il mento sul petto, finirà per ruzzolare giù e andare in pezzi, perché è fragile, specie nelle parti di filigrana d'oro incastonate di brillanti.
Quando senti che sta per scivolare devi avere l'accortezza di correggere la sua posizione con piccole scosse del capo, ma devi stare attento a non tirarti su troppo vivamente per non farla urtare contro il baldacchino, che la sfiora coi suoi drappeggi.
Insomma, devi mantenere quella compostezza regale che si suppone connaturata alla tua persona.
Del resto, che bisogno avresti di darti tanto da fare? Sei re, tutto quello che desideri è già tuo.
Basta che alzi un dito e ti portano da mangiare, da bere, gomma da masticare, stuzzicadenti, sigarette di ogni marca, tutto su un vassoio d'argento; quando ti prende il sonno il trono è comodo, imbottito, ti basta socchiudere gli occhi e abbandonarti contro la spalliera, mantenendo in apparenza la posizione di sempre: che tu sia sveglio o addormentato non cambia nulla, nessuno se ne accorge...
Insomma tutto è stato predisposto per evitarti qualsiasi spostamento. non avresti nulla da guadagnare, a muoverti, e tutto da perdere.
Se t'alzi, se t'allontani anche di pochi passi, se perdi di vista il trono anche per un attimo, chi ti garantisce che quando torni non ci trovi qualcun altro seduto sopra?
Magari uno che ti somiglia, uguale identico. Va poi a dimostrare che il re sei tu e non lui!
Un re si distingue dal fatto che siede sul trono, che porta la corona e lo scettro.
Ora che questi attributi sono tuoi, meglio che non te ne stacchi nemmeno per un istante.
C'è il problema di sgranchirti le gambe, d'evitare il formicolio, l'irrigidirsi delle giunture: certo è un grave inconveniente.
Ma puoi sempre scalciare, sollevare i ginocchi, rannicchiarti sul trono, sederti alla turca, naturalmente per brevi periodi, quando le questioni di Stato lo permettono.
Ogni sera vengono gli incaricati della lavatura dei piedi e ti tolgono gli stivali per un quarto d'ora; alla mattina quelli del servizio deodorante ti strofinano le ascelle con batuffoli di cotone profumato.
Insomma, il trono, una volta che sei stato incoronato, ti conviene starci seduto sopra senza muoverti, giorno e notte.
Tutta la tua vita di prima non è stata altro che l'attesa di diventare re; ora lo sei; non ti resta che regnare.
E cos'è regnare se non quest'altra lunga attesa?
L'attesa del momento in cui sarai deposto, in cui dovrai lasciare il trono, lo scettro, la corona, la testa.
Da Italo Calvino
Lo scettro va tenuto con la destra, diritto, guai se lo metti giù, e del resto non avresti dove posarlo, accanto al trono non ci sono tavolini o mensole o trespoli dove tenere, che so, un bicchiere, un posacenere un telefono; il trono è isolato, alto su gradini stretti e ripidi, tutto quello che fai cascare rotola e non si trova più.
Guai se lo scettro ti sfugge di mano, dovresti alzarti, scendere dal trono per raccoglierlo, nessuno lo può toccare tranne il re ; e non è bello che un re si allunghi al suolo, per raggiungere lo scettro finito sotto un mobile, o la corona, che è facile ti rotoli via dalla testa, se ti chini.
L'avambraccio puoi tenerlo appoggiato al bracciolo, così non si stanca: parlo sempre della destra che impugna lo scettro; quanto alla sinistra resta libera; puoi grattarti se vuoi; alle volte il manto di ermellino trasmette un prurito al collo che si propaga giù per la schiena, per tutto il corpo.
Anche il velluto del cuscino, scaldandosi, provoca una sensazione irritante alle natiche, alle cosce.
Non farti scrupolo di cacciare le dita dove ti prude, di slacciare il cinturone con la fibbia dorata, di scostare il collare, le medaglie, le spalline con le frange.
Sei Re, nessuno può trovarci da ridire, ci mancherebbe anche questa.
La testa devi tenerla immobile, non dimenticarti che la corona sta in bilico sul tuo cocuzzolo, non la puoi calzare sugli orecchi come un berretto in un giorno di vento; la corona culmina in una cupola più voluminosa della base che la regge, il che vuol dire che ha un equilibrio instabile: se ti capita d'appisolarti, di adagiare il mento sul petto, finirà per ruzzolare giù e andare in pezzi, perché è fragile, specie nelle parti di filigrana d'oro incastonate di brillanti.
Quando senti che sta per scivolare devi avere l'accortezza di correggere la sua posizione con piccole scosse del capo, ma devi stare attento a non tirarti su troppo vivamente per non farla urtare contro il baldacchino, che la sfiora coi suoi drappeggi.
Insomma, devi mantenere quella compostezza regale che si suppone connaturata alla tua persona.
Del resto, che bisogno avresti di darti tanto da fare? Sei re, tutto quello che desideri è già tuo.
Basta che alzi un dito e ti portano da mangiare, da bere, gomma da masticare, stuzzicadenti, sigarette di ogni marca, tutto su un vassoio d'argento; quando ti prende il sonno il trono è comodo, imbottito, ti basta socchiudere gli occhi e abbandonarti contro la spalliera, mantenendo in apparenza la posizione di sempre: che tu sia sveglio o addormentato non cambia nulla, nessuno se ne accorge...
Insomma tutto è stato predisposto per evitarti qualsiasi spostamento. non avresti nulla da guadagnare, a muoverti, e tutto da perdere.
Se t'alzi, se t'allontani anche di pochi passi, se perdi di vista il trono anche per un attimo, chi ti garantisce che quando torni non ci trovi qualcun altro seduto sopra?
Magari uno che ti somiglia, uguale identico. Va poi a dimostrare che il re sei tu e non lui!
Un re si distingue dal fatto che siede sul trono, che porta la corona e lo scettro.
Ora che questi attributi sono tuoi, meglio che non te ne stacchi nemmeno per un istante.
C'è il problema di sgranchirti le gambe, d'evitare il formicolio, l'irrigidirsi delle giunture: certo è un grave inconveniente.
Ma puoi sempre scalciare, sollevare i ginocchi, rannicchiarti sul trono, sederti alla turca, naturalmente per brevi periodi, quando le questioni di Stato lo permettono.
Ogni sera vengono gli incaricati della lavatura dei piedi e ti tolgono gli stivali per un quarto d'ora; alla mattina quelli del servizio deodorante ti strofinano le ascelle con batuffoli di cotone profumato.
Insomma, il trono, una volta che sei stato incoronato, ti conviene starci seduto sopra senza muoverti, giorno e notte.
Tutta la tua vita di prima non è stata altro che l'attesa di diventare re; ora lo sei; non ti resta che regnare.
E cos'è regnare se non quest'altra lunga attesa?
L'attesa del momento in cui sarai deposto, in cui dovrai lasciare il trono, lo scettro, la corona, la testa.
Da Italo Calvino
Riduci
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14 Anni 9 Mesi fa #5841
da LaDea
Risposta da LaDea al topic Re:Racconti
Il semaforo Blù
Una volta il semaforo che sta a Milano, in piazza del Duomo fece una stranezza.
Tutte le sue luci, ad un tratto, si tinsero di blu', e la gente non sapeva più come regolarsi.
"Attraversiamo o non attraversiamo? Stiamo o non stiamo?"
Da tutti i suoi occhi, in tutte le direzioni, il semaforo diffondeva l'insolito segnale blu', di un blu' che così blu' il cielo di Milano non era stato mai.
In attesa di capirci qualcosa gli automobilisti strepitavano e strombettavano, i motociclisti facevano ruggire lo scappamento e i pedoni più grassi gridavano:
"Lei non sa chi sono io!"
Gli spiritosi lanciavano frizzi:
"Il verde se lo sarà mangiato il commendatore, per farci una villetta in campagna.
Il rosso lo hanno adoperato per tingere i pesci ai Giardini.
Col giallo sapete che ci fanno? Allungano l'olio d'oliva."
Finalmente arrivò un vigile e si mise in mezzo all'incrocio a districare il traffico. Un altro vigile cercò la cassetta dei comandi per riparare il guasto, e tolse la corrente.
Prima di spegnersi il semaforo blu' fece in tempo a pensare:
"Poveretti! Io avevo dato il segnale di - via libera - per il cielo. Se mi avessero capito, ora tutti saprebbero volare. Ma forse gli è mancato il coraggio."
Una volta il semaforo che sta a Milano, in piazza del Duomo fece una stranezza.
Tutte le sue luci, ad un tratto, si tinsero di blu', e la gente non sapeva più come regolarsi.
"Attraversiamo o non attraversiamo? Stiamo o non stiamo?"
Da tutti i suoi occhi, in tutte le direzioni, il semaforo diffondeva l'insolito segnale blu', di un blu' che così blu' il cielo di Milano non era stato mai.
In attesa di capirci qualcosa gli automobilisti strepitavano e strombettavano, i motociclisti facevano ruggire lo scappamento e i pedoni più grassi gridavano:
"Lei non sa chi sono io!"
Gli spiritosi lanciavano frizzi:
"Il verde se lo sarà mangiato il commendatore, per farci una villetta in campagna.
Il rosso lo hanno adoperato per tingere i pesci ai Giardini.
Col giallo sapete che ci fanno? Allungano l'olio d'oliva."
Finalmente arrivò un vigile e si mise in mezzo all'incrocio a districare il traffico. Un altro vigile cercò la cassetta dei comandi per riparare il guasto, e tolse la corrente.
Prima di spegnersi il semaforo blu' fece in tempo a pensare:
"Poveretti! Io avevo dato il segnale di - via libera - per il cielo. Se mi avessero capito, ora tutti saprebbero volare. Ma forse gli è mancato il coraggio."
- Consuelo
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14 Anni 9 Mesi fa #5854
da Consuelo
Risposta da Consuelo al topic Re:Racconti
Tanto tempo fa, il pappagallo non aveva colori; era tutto grigio, le sue piume erano corte come quelle di una gallina bagnata. Uno tra i tanti uccelli giunti chissà come nel mondo. Gli Dei litigavano sempre; litigavano perché il mondo era assai noioso con due soli colori. Ed era motivata la loro ira, poiché solo due colori si alternavano nel mondo: uno era il nero che comandava la notte, l'altro era il bianco che camminava di giorno, il terzo non era un colore, era il grigio che dipingeva sere e mattine affinché non si scontrassero troppo. Ma questi Dei erano litigiosi ma molto sapienti.
In una riunione giunsero all'accordo di rendere i colori più lunghi perché fosse allegro il camminare e l'amare di uomini e donne. Uno degli Dei prese a camminare per pensare meglio, e tanto pensava, che sbatté contro una pietra ferendosi la testa da dove ne uscì sangue. Il dio, dopo aver strillato per un bel pezzo, guardò il suo sangue e vide che era di un altro colore, diverso dai due colori e andò dagli altri Dei, mostrando loro il nuovo colore che chiamarono "rosso", era il terzo che nasceva. Un altro degli Dei cercava un colore per dipingere la speranza. Lo trovò dopo un bel pezzo e lo mostrò all'assemblea degli Dei che gli misero il nome "verde" , era il quarto che nasceva. Un altro cominciò a grattare forte a terra. "Che fai?" gli chiesero gli altri Dei. "Cerco il cuore della terra" rispose rivoltando la terra da ogni lato. Dopo un po' trovò il cuore della terra, lo mostrò agli altri dei che chiamarono "caffè", era il quinto colore. Un altro dio salì in alto. "Vado a guardare il colore del mondo" disse, e si mise a scalare e scalare fino alla cima. Quando arrivò ben in alto, guardò in giù e vide il colore del mondo, ma non sapeva come fare a portarlo. Allora rimase a guardare per un bel po', finché il colore non gli si attaccò agli occhi. Discese come poté, a tentoni, e andò all'assemblea degli Dei. "Porto nei miei occhi il colore del mondo", E "azzurro" chiamarono il sesto colore. Un altro dio stava cercando colori quando sentì che un bambino rideva; si avvicinò con cautela e gli prese la risata, lasciandolo piangente. Per questo si dice che i bambini improvvisamente ridono e improvvisamente piangono. Il dio portò la risata del bambino e misero nome "giallo" al settimo colore. A quel punto gli dei che erano ormai stanchi, andarono a dormire, lasciando i colori in una cassetta buttata sotto un albero.
La cassetta non era chiusa bene e i colori uscirono, cominciando a far chiasso e festa. Così nacquero tanti nuovi colori. Quando tornarono gli Dei si accorsero che i colori non erano più sette, ma molti di più e guardarono la cassetta. "Tu hai partorito i colori, tu ne avrai cura , così dipingeremo il mondo". E salirono sulla cima del monte, e da lì cominciarono a lanciare i colori, così l'azzurro rimase parte nell'acqua e parte nel cielo, il verde cadde sugli alberi e sulle piante, il caffè, che era il più pesante, cadde sulla terra, il giallo, che era un risata di bambino, volò fino a tingere il sole, il rosso giunse sulla bocca degli uomini e degli animali che lo mangiarono, colorandosi così di rosso. Il bianco e il nero già esistevano. Gli dei lanciavano i colori senza fare attenzione a dove finivano, ed alcuni di essi spruzzarono gli uomini; per questo vi sono persone di diversi colori e di diverse opinioni. Allora, gli Dei, per non dimenticarsi dei colori e perché non si perdessero, cercarono un modo per conservarli; stavano pensando come fare quando videro il pappagallo. Lo presero e gli attaccarono i colori e gli allungarono le piume affinché ci stessero tutti.
E così il pappagallo prese tutti i colori. Ancora oggi se ne va in giro, nel caso che gli uomini si dimenticassero che molti sono i colori e le opinioni, e che il mondo potrebbe essere allegro, se tutti i colori e tutte le opinioni avessero il proprio spazio".
In una riunione giunsero all'accordo di rendere i colori più lunghi perché fosse allegro il camminare e l'amare di uomini e donne. Uno degli Dei prese a camminare per pensare meglio, e tanto pensava, che sbatté contro una pietra ferendosi la testa da dove ne uscì sangue. Il dio, dopo aver strillato per un bel pezzo, guardò il suo sangue e vide che era di un altro colore, diverso dai due colori e andò dagli altri Dei, mostrando loro il nuovo colore che chiamarono "rosso", era il terzo che nasceva. Un altro degli Dei cercava un colore per dipingere la speranza. Lo trovò dopo un bel pezzo e lo mostrò all'assemblea degli Dei che gli misero il nome "verde" , era il quarto che nasceva. Un altro cominciò a grattare forte a terra. "Che fai?" gli chiesero gli altri Dei. "Cerco il cuore della terra" rispose rivoltando la terra da ogni lato. Dopo un po' trovò il cuore della terra, lo mostrò agli altri dei che chiamarono "caffè", era il quinto colore. Un altro dio salì in alto. "Vado a guardare il colore del mondo" disse, e si mise a scalare e scalare fino alla cima. Quando arrivò ben in alto, guardò in giù e vide il colore del mondo, ma non sapeva come fare a portarlo. Allora rimase a guardare per un bel po', finché il colore non gli si attaccò agli occhi. Discese come poté, a tentoni, e andò all'assemblea degli Dei. "Porto nei miei occhi il colore del mondo", E "azzurro" chiamarono il sesto colore. Un altro dio stava cercando colori quando sentì che un bambino rideva; si avvicinò con cautela e gli prese la risata, lasciandolo piangente. Per questo si dice che i bambini improvvisamente ridono e improvvisamente piangono. Il dio portò la risata del bambino e misero nome "giallo" al settimo colore. A quel punto gli dei che erano ormai stanchi, andarono a dormire, lasciando i colori in una cassetta buttata sotto un albero.
La cassetta non era chiusa bene e i colori uscirono, cominciando a far chiasso e festa. Così nacquero tanti nuovi colori. Quando tornarono gli Dei si accorsero che i colori non erano più sette, ma molti di più e guardarono la cassetta. "Tu hai partorito i colori, tu ne avrai cura , così dipingeremo il mondo". E salirono sulla cima del monte, e da lì cominciarono a lanciare i colori, così l'azzurro rimase parte nell'acqua e parte nel cielo, il verde cadde sugli alberi e sulle piante, il caffè, che era il più pesante, cadde sulla terra, il giallo, che era un risata di bambino, volò fino a tingere il sole, il rosso giunse sulla bocca degli uomini e degli animali che lo mangiarono, colorandosi così di rosso. Il bianco e il nero già esistevano. Gli dei lanciavano i colori senza fare attenzione a dove finivano, ed alcuni di essi spruzzarono gli uomini; per questo vi sono persone di diversi colori e di diverse opinioni. Allora, gli Dei, per non dimenticarsi dei colori e perché non si perdessero, cercarono un modo per conservarli; stavano pensando come fare quando videro il pappagallo. Lo presero e gli attaccarono i colori e gli allungarono le piume affinché ci stessero tutti.
E così il pappagallo prese tutti i colori. Ancora oggi se ne va in giro, nel caso che gli uomini si dimenticassero che molti sono i colori e le opinioni, e che il mondo potrebbe essere allegro, se tutti i colori e tutte le opinioni avessero il proprio spazio".
- lisa33g
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14 Anni 7 Mesi fa #6218
da lisa33g
Risposta da lisa33g al topic Re:Racconti
La vera storia dell'amore
C’era una volta un’isola
dove vivevano tutti i sentimenti e i valori degli uomini,
c’era il Buon Umore… la Tristezza……..il Sapere…….incluso l’Amore…
Un giorno venne annunciato ai sentimenti
che l’isola stava per sprofondare……
allora prepararono tutti le loro barche e partirono…..
solo l’Amore volle aspettare fino all’ultimo momento…..
solo quando l’isola fu sul punto di sprofondare,
l’Amore decise di chiedere aiuto….
La Ricchezza passò vicino all’Amore su una barca lussuosissima
e l’Amore chiese: “Ricchezza mi puoi portare con te?”
e la Ricchezza rispose:
“Non posso c’è molto oro e argento sulla mia barca
e non ho posto per te”.
L’Amore allora decise di chiedere all’Orgoglio…
che stava passando su un magnifico vascello:
“Orgoglio ti prego mi puoi portare con te?” e l’Orgoglio rispose:
“Non ti posso aiutare, Amore…”
“Qui è tutto perfetto, potresti rovinare la mia barca”.
Allora l’Amore chiese alla Tristezza che gli stava passando accanto:
“Tristezza ti prego mi puoi portare con te?”
“Oh Amore”, rispose la Tristezza, “Sono così triste che ho bisogno di stare da sola”.
Anche il Buon Umore passò di fianco all’Amore ma era così contento che non sentì che lo stava chiamando.
All’’improvviso una voce disse:
“Vieni Amore ti prendo con me”. Era un vecchio che aveva parlato….
L’Amore si sentì così riconoscente e pieno di gioia che dimenticò di chiedere il nome del vecchio.
Quando arrivarono sulla terra ferma, il vecchio se ne andò….
L’Amore si rese conto di quanto gli dovesse…
e chiese al Sapere:
“Sapere puoi dirmi chi mi ha aiutato?”
“E’ stato il Tempo” rispose il Sapere.
“Il Tempo?” si interrogò l’Amore
“Perché mai il Tempo mi ha aiutato?”.
Il Sapere pieno di saggezza rispose:
“Perché solo il Tempo è capace di comprendere quanto l’Amore sia importante nella vita”.
Perciò continua a credere e a sognare nell’Amore,
se trovate la persona giusta, tenetevela stretta…….
non fatela scappare via… Perché la vita è una battaglia…..
e a volte il vincitore è semplicemente il sognatore
che non ha mai mollato……..
C’era una volta un’isola
dove vivevano tutti i sentimenti e i valori degli uomini,
c’era il Buon Umore… la Tristezza……..il Sapere…….incluso l’Amore…
Un giorno venne annunciato ai sentimenti
che l’isola stava per sprofondare……
allora prepararono tutti le loro barche e partirono…..
solo l’Amore volle aspettare fino all’ultimo momento…..
solo quando l’isola fu sul punto di sprofondare,
l’Amore decise di chiedere aiuto….
La Ricchezza passò vicino all’Amore su una barca lussuosissima
e l’Amore chiese: “Ricchezza mi puoi portare con te?”
e la Ricchezza rispose:
“Non posso c’è molto oro e argento sulla mia barca
e non ho posto per te”.
L’Amore allora decise di chiedere all’Orgoglio…
che stava passando su un magnifico vascello:
“Orgoglio ti prego mi puoi portare con te?” e l’Orgoglio rispose:
“Non ti posso aiutare, Amore…”
“Qui è tutto perfetto, potresti rovinare la mia barca”.
Allora l’Amore chiese alla Tristezza che gli stava passando accanto:
“Tristezza ti prego mi puoi portare con te?”
“Oh Amore”, rispose la Tristezza, “Sono così triste che ho bisogno di stare da sola”.
Anche il Buon Umore passò di fianco all’Amore ma era così contento che non sentì che lo stava chiamando.
All’’improvviso una voce disse:
“Vieni Amore ti prendo con me”. Era un vecchio che aveva parlato….
L’Amore si sentì così riconoscente e pieno di gioia che dimenticò di chiedere il nome del vecchio.
Quando arrivarono sulla terra ferma, il vecchio se ne andò….
L’Amore si rese conto di quanto gli dovesse…
e chiese al Sapere:
“Sapere puoi dirmi chi mi ha aiutato?”
“E’ stato il Tempo” rispose il Sapere.
“Il Tempo?” si interrogò l’Amore
“Perché mai il Tempo mi ha aiutato?”.
Il Sapere pieno di saggezza rispose:
“Perché solo il Tempo è capace di comprendere quanto l’Amore sia importante nella vita”.
Perciò continua a credere e a sognare nell’Amore,
se trovate la persona giusta, tenetevela stretta…….
non fatela scappare via… Perché la vita è una battaglia…..
e a volte il vincitore è semplicemente il sognatore
che non ha mai mollato……..
14 Anni 7 Mesi fa #6223
da perla84
Risposta da perla84 al topic Re:Racconti
La Nebbia
Non pensate a quello che pensereste se vi dicessero che questo è un bel posto. Qui la gente è diversa.
Prendete un bambino, per esempio. Uno qualsiasi, uno dei nostri. Ha appena imparato che dormire è un gran bel modo di passare la vita, soprattutto se hai messo nello stomaco una quantità sufficiente di manicaretti: una verità che fa il mondo quanto quella della morte, o così siamo giunti a concludere. Inoltre ha già alle spalle Il signore delle mosche e ha iniziato La collina dei conigli, ma riconosce a sé stesso che la cosa più bella di tutte è ascoltare il rumore dei propri passi sull’asfalto bitorzoluto e bagnato dalla pioggia. Ma ciò che più importa è che è un bambino come gli altri, nel nostro paese. Sono tutti uguali, qui. Lo siamo stati anche noi adulti, prima di loro. Tutto segue la legge microcosmica che il mare ha dettato. O meglio, la nebbia lo ha fatto: lo sanno tutti, qui.
Il fatto è che ogni mattina, dietro le scogliere, dal mare si alza la nebbia. Questo è il punto, anche se chiunque lo troverebbe ridicolo: e lo è, davvero. Ogni mattina piccoli banchi di nebbia si distaccano dall’acqua come spiriti venuti dalle antiche leggende; i nostri marinai non ne hanno mai fatto un problema, perché preferiscono la notte per pescare. Sono i bambini, invece, a temerla. La nebbia impedisce loro di scorgere il mare. Ascoltano il tintinnio lontano delle boe e fissano con lo sguardo rabbuiato il punto in cui le scogliere s’immergono nella nebbia, come se quello fosse il bordo del mondo. La cosa più strana, però, è che la nebbia non si dirada che al crepuscolo. Dico che è una cosa strana perché così mi pare che vi sembrerebbe: per noi è una cosa normalissima. A quanto ne sappiamo, la nebbia esiste da sempre. Il nostro è un paese stregato.
Se vi dicessi che questo è un bel posto, pensereste che sono matto. «Le vostre case sono delle scatolette di cemento senza vita», mi direste aggrottando le sopracciglia. «Le vostre strade sono viuzze sporche e puzzolenti. I vostri locali sono bettole inzaccherate di alcol misto a vomito. Avete il mare, ma è peloso quanto voi. E non avete spiagge. Solo scogli su scogli.»
Sareste anche troppo buoni, perché omettereste deliberatamente di descrivere la parte peggiore. C’è un puzzo, nella nostra aria, che sembra venire dalla terra e che appesta il cielo, come se nelle profondità del mondo fosse sepolto un bulbo malefico di decomposizione. Il nostro paese è raggomitolato in una larga conca naturale, quella che i nostri vecchi chiamano ancora «il Pugno del Gigante». Raccontano che un gigante in cerca di riposo avesse affossato il terreno con un pugno e vi si fosse seduto per un po’. Non dicono di più, ma tutti capiscono che il gigante, prima di ripartire, ha lasciato lì il suo sterco. La terra l’ha assorbito, ma ne emana ancora i miasmi, zaffate mosse dal vento e rese salmastre dal mare. E di giorno sembra che fantasmi di fogna vaghino per le strade, frustati dal sole.
Ma immaginate ancora quel bambino. È bene che lo sappiate: odia la scuola. Ciò che ama è il tempo. Il tempo è una poesia che parla di tutto col ritmo della morte: l’ha detto papà. È una bella cosa. Lo sa che il tempo è il ticchettio dell’orologio, ma questo non vuol dir nulla di opposto. Forse può essere tutt’e due le cose. Può essere, sapete.
Il tempo gli piace guardarlo da sotto le coperte. Gli piace vederlo andar via con la testa affondata nel cuscino, in silenzio. Non è una cosa da niente il fatto che in questi momenti non parli, considerando che vuole sempre dire la sua – e la sua è solitamente qualcosa di molto, molto lungo e noioso. Quello che gli permette di guardare il tempo sono le note che mamma suona di tanto in tanto, quando è in vena. Non che siano un granché, dopotutto. È Für Elise, come al solito, e la melodia traballa quanto le gambe storte del clavicembalo su cui le suona. Ma non è importante, sul serio. L’importante è il ritmo. Il riflusso delle onde ha un ritmo, e ogni volta si spiaggia qualcosa di nuovo. Tutto questo l’ha imparato dal mare, in parte… certo che sì. Ma sarebbe stupido far finta che non sia stata la nebbia a creare tutto, da sempre. Sarebbe stupido, anche se alcuni lo troverebbero necessario. Lo troverebbero logico, insomma.
Quello che voglio dire è che nessuno di noi capisce il perché. Sappiamo che la nebbia impone un ritmo ripetuto e invariato al fluire delle nostre vite, ma questo è solo l’aspetto più superficiale. Forse siamo ombre: forse è la nebbia che ci proietta sulla terraferma, e se una bocca gigantesca vi soffiasse sopra, forse spariremmo tutti. Questa è la mia impressione. È l’impressione di tutti, credo.
Nel nostro paese gli angoli assumono convergenze singolari, le mura delle case si uniscono secondo strane giustapposizioni e la geometria del cielo ha caratteristiche inconsuete, come se il mondo intero fosse separato da noi da un vetro opacizzato: le immagini sono appena distorte, come sfiorate da un flusso d’aria che ne altera i contorni rendendoli curvi e incerti. Ma credo che voi non lo direste. Non per un atto di codardia, sia chiaro. Voi non temete la nebbia. Siete viaggiatori: questo è tutto. Ma guardate il promontorio, solo per un attimo. Non ha nulla di strano, d’accordo. Eppure quel dito eroso che si allunga sul mare ci provoca un dolore insensato, forse per il modo stentato in cui svanisce nella nebbia. Ora state zitti, trattenete il sorriso. Ma guardate quella luce: è il faro, sulla cima più alta, che buca il cielo come una freccia d’oro. Non dovreste ridere di noi. Non siamo viaggiatori.
Prendete ancora quel bambino. Beh, non è più un bambino. Ora è un vecchio. Ha pescato milioni di pesci e ha affrontato tutti i suoi leviatani e tutti i suoi tritoni. Lo hanno fatto anche gli altri, e chi ancora non lo ha fatto, lo farà. Ora, tutto ciò che vuole è affittarsi un bel villino nel paradiso e dormire senza sogni.
È da un po’, quest’ottobre, che può vedere una porta smerigliata nella nebbia oltre le scogliere. Gli pare di sentire un lieve ticchettio provenire da là dietro: è l’unico, mite rumore. Pensa che sia San Pietro che batte a macchina. Può essere, sapete? Ma quando ascolta quel suono sente come un peso, un fardello che minaccia di mozzargli il fiato a ogni movimento. Sul vetro della porta gli sembra di scorgere la propria immagine riflessa. È quella di un uomo avvizzito e sgonfio. Deve essere lui. Tace, comunque, e continua a guardare il tempo come faceva da bambino. Non gli dà più la stessa sensazione, però. Forse perché non c’è mamma a suonare Für Elise. Sta zitto. I vecchi qui non godono nel lamentarsi. Non si lamentano affatto, anzi. Nonostante la stretta correlazione tra le due attività, soffrire non è fare l’amore. È il cadere che le accumuna, però, lo scivolare via, oltre la nebbia, superando inconsapevolmente i limiti del qui e dell’adesso. Ciò che c’è là dietro, lo sapete, è la morte. O così siamo giunti a concludere.
Non pensate a quello che pensereste se vi dicessero che questo è un bel posto. Qui la gente è diversa.
Prendete un bambino, per esempio. Uno qualsiasi, uno dei nostri. Ha appena imparato che dormire è un gran bel modo di passare la vita, soprattutto se hai messo nello stomaco una quantità sufficiente di manicaretti: una verità che fa il mondo quanto quella della morte, o così siamo giunti a concludere. Inoltre ha già alle spalle Il signore delle mosche e ha iniziato La collina dei conigli, ma riconosce a sé stesso che la cosa più bella di tutte è ascoltare il rumore dei propri passi sull’asfalto bitorzoluto e bagnato dalla pioggia. Ma ciò che più importa è che è un bambino come gli altri, nel nostro paese. Sono tutti uguali, qui. Lo siamo stati anche noi adulti, prima di loro. Tutto segue la legge microcosmica che il mare ha dettato. O meglio, la nebbia lo ha fatto: lo sanno tutti, qui.
Il fatto è che ogni mattina, dietro le scogliere, dal mare si alza la nebbia. Questo è il punto, anche se chiunque lo troverebbe ridicolo: e lo è, davvero. Ogni mattina piccoli banchi di nebbia si distaccano dall’acqua come spiriti venuti dalle antiche leggende; i nostri marinai non ne hanno mai fatto un problema, perché preferiscono la notte per pescare. Sono i bambini, invece, a temerla. La nebbia impedisce loro di scorgere il mare. Ascoltano il tintinnio lontano delle boe e fissano con lo sguardo rabbuiato il punto in cui le scogliere s’immergono nella nebbia, come se quello fosse il bordo del mondo. La cosa più strana, però, è che la nebbia non si dirada che al crepuscolo. Dico che è una cosa strana perché così mi pare che vi sembrerebbe: per noi è una cosa normalissima. A quanto ne sappiamo, la nebbia esiste da sempre. Il nostro è un paese stregato.
Se vi dicessi che questo è un bel posto, pensereste che sono matto. «Le vostre case sono delle scatolette di cemento senza vita», mi direste aggrottando le sopracciglia. «Le vostre strade sono viuzze sporche e puzzolenti. I vostri locali sono bettole inzaccherate di alcol misto a vomito. Avete il mare, ma è peloso quanto voi. E non avete spiagge. Solo scogli su scogli.»
Sareste anche troppo buoni, perché omettereste deliberatamente di descrivere la parte peggiore. C’è un puzzo, nella nostra aria, che sembra venire dalla terra e che appesta il cielo, come se nelle profondità del mondo fosse sepolto un bulbo malefico di decomposizione. Il nostro paese è raggomitolato in una larga conca naturale, quella che i nostri vecchi chiamano ancora «il Pugno del Gigante». Raccontano che un gigante in cerca di riposo avesse affossato il terreno con un pugno e vi si fosse seduto per un po’. Non dicono di più, ma tutti capiscono che il gigante, prima di ripartire, ha lasciato lì il suo sterco. La terra l’ha assorbito, ma ne emana ancora i miasmi, zaffate mosse dal vento e rese salmastre dal mare. E di giorno sembra che fantasmi di fogna vaghino per le strade, frustati dal sole.
Ma immaginate ancora quel bambino. È bene che lo sappiate: odia la scuola. Ciò che ama è il tempo. Il tempo è una poesia che parla di tutto col ritmo della morte: l’ha detto papà. È una bella cosa. Lo sa che il tempo è il ticchettio dell’orologio, ma questo non vuol dir nulla di opposto. Forse può essere tutt’e due le cose. Può essere, sapete.
Il tempo gli piace guardarlo da sotto le coperte. Gli piace vederlo andar via con la testa affondata nel cuscino, in silenzio. Non è una cosa da niente il fatto che in questi momenti non parli, considerando che vuole sempre dire la sua – e la sua è solitamente qualcosa di molto, molto lungo e noioso. Quello che gli permette di guardare il tempo sono le note che mamma suona di tanto in tanto, quando è in vena. Non che siano un granché, dopotutto. È Für Elise, come al solito, e la melodia traballa quanto le gambe storte del clavicembalo su cui le suona. Ma non è importante, sul serio. L’importante è il ritmo. Il riflusso delle onde ha un ritmo, e ogni volta si spiaggia qualcosa di nuovo. Tutto questo l’ha imparato dal mare, in parte… certo che sì. Ma sarebbe stupido far finta che non sia stata la nebbia a creare tutto, da sempre. Sarebbe stupido, anche se alcuni lo troverebbero necessario. Lo troverebbero logico, insomma.
Quello che voglio dire è che nessuno di noi capisce il perché. Sappiamo che la nebbia impone un ritmo ripetuto e invariato al fluire delle nostre vite, ma questo è solo l’aspetto più superficiale. Forse siamo ombre: forse è la nebbia che ci proietta sulla terraferma, e se una bocca gigantesca vi soffiasse sopra, forse spariremmo tutti. Questa è la mia impressione. È l’impressione di tutti, credo.
Nel nostro paese gli angoli assumono convergenze singolari, le mura delle case si uniscono secondo strane giustapposizioni e la geometria del cielo ha caratteristiche inconsuete, come se il mondo intero fosse separato da noi da un vetro opacizzato: le immagini sono appena distorte, come sfiorate da un flusso d’aria che ne altera i contorni rendendoli curvi e incerti. Ma credo che voi non lo direste. Non per un atto di codardia, sia chiaro. Voi non temete la nebbia. Siete viaggiatori: questo è tutto. Ma guardate il promontorio, solo per un attimo. Non ha nulla di strano, d’accordo. Eppure quel dito eroso che si allunga sul mare ci provoca un dolore insensato, forse per il modo stentato in cui svanisce nella nebbia. Ora state zitti, trattenete il sorriso. Ma guardate quella luce: è il faro, sulla cima più alta, che buca il cielo come una freccia d’oro. Non dovreste ridere di noi. Non siamo viaggiatori.
Prendete ancora quel bambino. Beh, non è più un bambino. Ora è un vecchio. Ha pescato milioni di pesci e ha affrontato tutti i suoi leviatani e tutti i suoi tritoni. Lo hanno fatto anche gli altri, e chi ancora non lo ha fatto, lo farà. Ora, tutto ciò che vuole è affittarsi un bel villino nel paradiso e dormire senza sogni.
È da un po’, quest’ottobre, che può vedere una porta smerigliata nella nebbia oltre le scogliere. Gli pare di sentire un lieve ticchettio provenire da là dietro: è l’unico, mite rumore. Pensa che sia San Pietro che batte a macchina. Può essere, sapete? Ma quando ascolta quel suono sente come un peso, un fardello che minaccia di mozzargli il fiato a ogni movimento. Sul vetro della porta gli sembra di scorgere la propria immagine riflessa. È quella di un uomo avvizzito e sgonfio. Deve essere lui. Tace, comunque, e continua a guardare il tempo come faceva da bambino. Non gli dà più la stessa sensazione, però. Forse perché non c’è mamma a suonare Für Elise. Sta zitto. I vecchi qui non godono nel lamentarsi. Non si lamentano affatto, anzi. Nonostante la stretta correlazione tra le due attività, soffrire non è fare l’amore. È il cadere che le accumuna, però, lo scivolare via, oltre la nebbia, superando inconsapevolmente i limiti del qui e dell’adesso. Ciò che c’è là dietro, lo sapete, è la morte. O così siamo giunti a concludere.
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14 Anni 6 Mesi fa #6418
da LaDea
Risposta da LaDea al topic Re:Racconti
Notturna
Note di pace tra quelle pareti rosse;trasparenza vitale dentro un bicchere triste tanto quanto utile.
Quel venerdì sera anche gli oggetti cantavano, il silenzio stordiva più di qualsiasi pezzo rock del secolo precedente.
Posate le cuffie, le bastò solo andar verso la finestra.
L'immenso vuoto che le avevano lasciato tutti gli uomini della sua vita venne subito colmato dalle stelle... poi un sospiro... infine tra le braccia di morfeo.
Note di pace tra quelle pareti rosse;trasparenza vitale dentro un bicchere triste tanto quanto utile.
Quel venerdì sera anche gli oggetti cantavano, il silenzio stordiva più di qualsiasi pezzo rock del secolo precedente.
Posate le cuffie, le bastò solo andar verso la finestra.
L'immenso vuoto che le avevano lasciato tutti gli uomini della sua vita venne subito colmato dalle stelle... poi un sospiro... infine tra le braccia di morfeo.
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